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La madre di Noemi, “impensabile” che l’assassino “abbia diritto alla libertà” Femminicidio di Specchia, il reo confesso vorrebbe lavorare fuori dal carcere

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«Io da madre, leggendo queste notizie, ricevo l’ennesima pugnalata. Mi chiedo come sia possibile che dopo soli 3 anni dalla morte di mia figlia Noemi, si possa pensare e volere «evadere» da una pena, già ridotta di un terzo, che si è appena iniziato a scontare. Me l’ha portata via picchiandola, prendendola a sassate, e accoltellandola in testa». Inizia così la lettera scritta dalla madre di Noemi Durini, la sedicenne di Specchia (Lecce) ammazzata dal fidanzato Lucio Marzo, reo confesso che ha chiesto alle autorità di lavorare fuori dal carcere.
«È stata tanta la crudeltà e la ferocia con la quale si è scagliato su di lei che durante l’esame autoptico le hanno trovato la punta del coltello nel cranio- scrive la mamma di Noemi-. E questa non è stata neppure la fine, non era sufficiente. Evidentemente, la sofferenza di mia figlia per lui in quel momento non contava. Così l’ha seppellita viva, sotto un cumulo di pietre. Sì, mia figlia quando fu sepolta, era ancora viva, respirava. A dimostrarlo, fu l’autopsia. Dopo abbandonò Noemi lì, in una campagna isolata, in fin di vita, ferita, sola, sotto dei massi gelidi e pesanti, che le hanno causato la morte da “asfissia per compressione toracica”».
La donna ripercorre le tappe del calvario: «L’autopsia durò più di 12 giorni e solo dopo potei finalmente andare a prendere mia figlia per riportarla a casa, non viva come avevo sperato e immaginato, ma all’interno di una bara bianca. Non ebbi nemmeno la possibilità di salutarla per l’ultima volta. È stata per dieci giorni sotto un cumulo di pietre, abbandonata e nascosta in modo tale da non essere né vista né ritrovata. Leggere i risultati di quell’esame autoptico è stato devastante. Apprendere del ritrovamento di mia figlia è stato straziante, un dolore immenso che non auguro mai a nessuno di provare. Quel giorno, insieme a mia figlia, sono morta anch’io. Noemi aveva 16 anni quando le è stato tolto il sorriso, aveva una vita davanti piena di sogni e progetti. Voleva danzare, studiare e fare la psicologa. Voleva aiutare i bambini in difficoltà, facendo sostegno nelle scuole. Voleva visitare tanti luoghi, vedere le montagne, il mare, la natura, le città. Voleva sposarsi, avere dei figli, indossare l’abito bianco e trasferirsi in un’altra città, dalla sorella, una volta finite le superiori. Una vita che lui ha spezzato e distrutto, insieme a quella della mia famiglia e mia, come madre. Senza neanche mai chiedere perdono».
La madre trova «impensabile», che l’assassino della figlia «possa avere diritto alla libertà, tramite permessi premio o ulteriori benefici. Da madre non posso accettare, che questa persona possa essere libera anche solo per pochi istanti. Non voglio nemmeno credere che i giudici possano accettare una cosa del genere». Non «voglio mettere in discussione il concetto del reinserimento sociale o del recupero di un detenuto, ma qui si parla di un assassino che ha agito con crudeltà e lucidità dal primo momento fino all’ultimo, creandosi alibi, distruggendo prove, pulendo l’auto, eliminando ogni traccia e cambiando versione attraverso strategie subdole per liberarsi da ogni responsabilità. In tre anni, non ha mai mostrato nessun segno di pentimento, di presa di coscienza del gesto, di sconforto o richiesta di perdono»
La madre di Noemi si rivolge alle istituzioni affinché la richiesta dell’assassino della figlia non venga accolta. «Io credo nella giustizia e nelle persone che portano avanti questi ideali, e voglio credere che anche in questo caso vengano fatte le giuste e accurate valutazioni, per far sì che un soggetto del genere sconti la sua pena all’interno della struttura detentiva e non al di fuori di essa. Cosa vogliamo fare? Vogliamo altre Noemi uccise? L’assassino di mia figlia è stato condannato a soli 18 anni e 8 mesi, nulla in confronto alla vita stroncata di Noemi. Spero che vengano scontati fino all’ultimo minuto all’interno di una struttura detentiva. Se vuole lavorare, lo faccia nella sua cella o tra le mura del carcere. Spero che questa lettera porti molte persone a riflettere, perché ora l’unica cosa che mi resta è dare giustizia a mia figlia e tutelarla con ogni strumento possibile».




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