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E la Sinistra salvò Michelone Elezioni regionali della Puglia

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Di Pietro Andrea Annicelli:

La notte tra domenica e lunedì pare che sia stata agitata per Michele Emiliano. I sondaggi riservati, che a seconda di chi diceva di averli alternavano lui e Raffaele Fitto d’un paio di punti percentuali in più o in meno, riferivano d’un testa-a-testa fino all’ultimo voto. Poi è arrivato il pomeriggio del 21 settembre e Michelone si è visto proiettare irresistibilmente sempre più in vantaggio fino alla tarda mattinata di martedì, quando le 4026 sezioni della Puglia hanno sentenziato: 46,78% a 39,93%. Ma già la sera prima lui e i suoi, rinfrancati, avevano brindato. E i due Matteo, Salvini e Renzi, avevano contemplato il loro buco nell’acqua.
Quasi otto punti percentuali di differenza: com’era stato possibile? Effetto Antonio De Caro, dicevano in tanti. Sicuramente il sindaco di Bari aveva speso tutta la sua popolarità in favore del presidente regionale uscente. Ma non s’era trattato d’un imprevisto gesto di generosità, bensì della scontata difesa calcolata della sua posizione e del suo futuro. Ciò che invece aveva infine fatto credere di potercela fare a Michelone e ai suoi, con il fiato corto per buona parte della campagna elettorale, era stato il comizio di Nichi Vendola il 17 settembre.
L’ex leader della Sinistra pugliese aveva infuocato l’ampio pubblico con l’endorsement a Emiliano e toni aspri di critica a Fitto che riecheggiavano le argomentazioni vincenti del 2005, quando sconfisse l’allora presidente uscente della Puglia per meno di quindicimila voti su oltre due milioni di votanti. Quello stesso giorno il giornalista Andrea Tundo, raccogliendo le dichiarazioni del commissario regionale di Forza Italia, Mauro D’Attis, all’interno della sua lunga disamina delle elezioni pugliesi per “Il Fatto quotidiano”, così concludeva: «Salvini e Meloni sono pronti a bussare alla porta di Conte: “Decidono la maggioranza e il presidente della Repubblica”, mette le mani avanti il commissario pugliese di Forza Italia. Poi si sbottona: “È indubbio che di fronte a un risultato clamoroso dalla Toscana alla Puglia, come fece D’Alema nel 2000, qualcuno dovrà assumersi le responsabilità della sconfitta”. Emiliano è uno degli argini, aggrappato a quel che resta del vendolismo. Il governo è avvisato».
Questa consapevolezza ha mobilitato una parte significativa del partito più ampio e importante: quello dei rinunciatari al voto. Il dato dei votanti, 56,43% rispetto al 51,19% del ‘15, parla chiaro. Quegli oltre cinque punti percentuali in più sono in larga parte elettori di sinistra che, in condizioni normali, sarebbero restati a casa contro una politica trasformista che non li rappresentava. Invece sono andati a votare Emiliano per non pregiudicare il Governo nazionale, contro la Lega e per evitare il rischio (paventato da Vendola) di riportare indietro la Puglia rispetto all’internazionalizzazione delle sue dinamiche innovative, turistiche e culturali. È questo il sentimento che ha salvato Emiliano.
Si potrà discutere, e lo si sta facendo nei sancta sanctorum della politica, del disastro dei leghisti indigeni, partiti con la pretesa di stravincere e finiti a oltre cinquantamila voti da Fratelli d’Italia (160.507 a 211.693, rispettivamente 9,57% a 12,63%), tallonati in poco più d’un punto percentuale da Forza Italia all’8,91% e da “La Puglia domani”, la lista civica pro Fitto, all’8,42%. Il candidato presidente, dal canto suo, non ha nulla da rimproverarsi se non certe foto elettorali improbabili in maglietta bianca sotto la giacca che, si presentasse a casa così conciato, la moglie non lo farebbe entrare. Salvini mente sapendo di mentire quando dice che Fitto era il candidato sbagliato. Egli invece è stato, per il Centrodestra, il migliore possibile: Emiliano dice la verità quando afferma d’aver avuto paura di perdere. Fosse stato al suo posto Nuccio Altieri, prescelto da Salvini, i punti percentuali in meno sarebbero stati forse venti.
Emiliano ha ottenuto 871.028 consensi, Fitto 724.928, per una differenza di 146.100 voti. Se si guarda alle quattro liste per Fitto che hanno ottenuto consiglieri (fa eccezione quella tra Udc e Nuovo Psi, 1,89%, 31.736 preferenze), ci si accorge che la somma dei loro voti supera abbondantemente quella delle tre liste avversarie (il Partito Democratico, prima forza in Puglia, le civiche “Con Emiliano” e “Popolari con Emiliano”) che hanno fatto altrettanto: 662.800 a 499.368. Non c’è stato o si è compensato il voto disgiunto: tutti i candidati presidente hanno più voti della somma delle rispettive liste.
Fitto ha avuto 30.392 preferenze in più della somma delle liste in suo sostegno, confermando di saper attrarre consenso. Emiliano, di preferenze personali, ne ha però ricevute 111.296. E l’armata brancaleone delle sue liste che non hanno espresso neppure un consigliere (dodici su quindici, trasformando in un piccolo lenzuolo la scheda elettorale e dove politicamente c’era tutto e il contrario) gli ha comunque garantito 260.364 voti che, sommati a quelli personali, fa ben 371.660 in larga parte scaturiti dall’inedita alleanza sul campo tra il populismo anti sovranista e la mobilitazione degli elettori di sinistra. È stato il “voto utile” che ha riportato Michelone al numero 33 del Lungomare Nazario Sauro a Bari. E, soprattutto, che ha consolidato il Governo Conte bis.
Se questa è stata la sua arma segreta, Emiliano si è comunque potuto avvalere del fallimento leghista, del ridicolo tentativo di boicottaggio di Matteo Renzi e Carlo Calenda, della prevista fuga dai Cinque Stelle. Il 2 settembre l’Ipsos forniva questa proiezione: il Pd e la Lega gareggiavano per il primato con il 18% e il 17,5%, il M5s 17%, Fratelli d’Italia 12,9%, Forza Italia 7,5%. Il dato finale invece era: Pd 17,25%, Fratelli d’Italia 12,63%, il M5s 9,86%, la Lega 9,57%, Forza Italia 8,91%. A Italia Viva, 1,08%, non ha giovato una campagna elettorale più contro Emiliano che per tentare di far fare una figura decente, in termini di consensi, al povero Ivan Scalfarotto, il candidato presidente più inutile perché prigioniero dei tentativi di vendetta politica di Matteo Renzi e Carlo Calenda.
I dati parlano chiaro: se gli elettori di sinistra hanno spinto Emiliano corroborando il flusso di consensi in parte, oltre che di elettori progressisti, anche qualunquista e di destra, la Lega che ha quasi dimezzato i voti rispetto ai sondaggi è stata la palla al piede di Fitto. Salvini è il grande sconfitto delle regionali in tutta Italia: inadeguato a tenere insieme la coalizione di centrodestra, discusso nel suo stesso partito dove Luca Zaia e Giancarlo Giorgetti incombono per una linea politica più moderata e meno sovranista. In Puglia, oltre alla pretesa vana di sostituire all’ultimo Fitto, candidato da mesi, con il debole Altieri, non ha giovato la rottura con l’europarlamentare Andrea Caroppo né la campagna elettorale fatta snobbando le altre forze della coalizione. Già poco credibile nelle argomentazioni, Salvini è stato percepito dai pugliesi per quello che era: uno che voleva voti per trasformare la Lega in una forza politica nazionale invece che garantire la buona amministrazione regionale. Né i nuovi dirigenti leghisti potevano in breve selezionare una nuova classe dirigente, ammesso e non concesso che fosse questo il loro scopo e non cercare di posizionarsi per le rispettive ambizioni. Fratelli d’Italia ha fatto il suo e non era concorrenziale al Pd: doveva essere la Lega la forza d’urto della coalizione. Invece, è stata il ventre molle.
Michelone, intelligente più che astuto sebbene l’astuzia non gli manchi (la moltiplicazione delle liste, al pari di alcuni candidati compreso l’infettivologo Pierluigi Lopalco dal quale ci saremmo aspettati maggiore imparzialità, è stata inopportuna quanto essenziale), ha mantenuto un profilo basso in campagna elettorale indossando il saio del penitente. Ciò ha favorito il ragionamento di chi, da sinistra, ha pensato: va bene, sei stato un presidente mediocre nel primo mandato, ma comunque sei uno capace e il meno peggio. Quando, dopo la riconferma, lo hanno provocato chiedendogli cosa mandasse a dire a Renzi, ha risposto: niente. Con la riconoscenza di Giuseppe Conte, la benedizione di Vendola, Salvini in caduta libera, i Cinque Stelle ridimensionati, il carico a chiacchiere di Rignano reso politicamente irrilevante, il Pd solidamente intorno, Emiliano si prepara ad altri cinque anni che potrebbero essere molto diversi.
Lui sa che dovrà dare risposte su quelli che sono stati i suoi punti deboli: l’agricoltura da rilanciare e il contrasto alla xylella, le infrastrutture, il siderurgico di Taranto che da decarbonizzare e convertire a gas, ma anche piantarla con un certo clientelismo che molti gli hanno rimproverato. Già la scelta di Lopalco come assessore alla Sanità, delega che Emiliano aveva tenuto per sé nel precedente quinquennio, costituisce un cambio di marcia, purché accompagnato da un’effettiva gestione ottimale della spesa, altrimenti rischierebbe di fare da specchietto per le allodole. L’annuncio d’una giunta con cinque donne e cinque uomini è confortante rispetto alla brutta pagina, la mancata approvazione della legge sulla parità di genere, con cui si è chiusa la precedente legislatura. Partire con il piede giusto sarà fondamentale per vedere se l’onda lunga della Primavera pugliese potrà continuare. Anche fuori tempo e fuori stagione.




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