La riunione di ieri, terminata in serata, è stata aggiornata alle 9,30 odierne.
La delegazione pugliese è composta, tra gli altri, dall’assessora regionale all’Ambiente Serena Triggiani, dal Direttore del Dipartimento Ambiente, Paolo Garofoli, dai sindaci di Taranto Piero Bitetti e di Statte Fabio Spada, dal presidente della Provincia di Taranto Gianfranco Palmisano, dal presidente del comitato SEPAC, la task force lavoro della Regione Puglia Leo Caroli, dalla coordinatrice dell’Avvocatura regionale Rossana Lanza, dai responsabili dipartimenti Attività Produttive Gianna Elisa Berlingerio e Comunicazione Istituzionale Rocco De Franchi, dal direttore generale di Arpa Puglia Vito Bruno oltre che, ovviamente, dal presidente della Regione Puglia, Michele Emiliano.
Oggi, per il ministro Urso, è necessario firmare un accordo. Sono convocati al ministero delle Imprese i rappresentanti delle istituzioni locali tarantine, per sottoscrivere il piano di decarbonizzazione necessario alla nuova autorizzazione integrata ambientale da concedere all’ex Ilva per il siderurgico di Taranto.
C’è molta attesa per la decisione che prenderà il sindaco di Taranto, Piero Bitetti, in carica da poche settimane, nonché del presidente della Regione Puglia, Michele Emiliano.
Non è per nulla scontata la loro firma.
Ma nelle scorse settimane il ministro ha detto che senza accordo per la decarbonizzazione (con un rigassificatore ad esempio) si va alla chiusura.
Ieri il piano è stato presentato dal ministro ai sindacati.
Sempre ieri, molti cittadini davanti al municipio di Taranto per far sentire al sindaco la loro voce: non firmare.
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Di seguito un comunicato diffuso da Usb:
Si è svolto oggi presso il MIMIT un nuovo incontro sulla vertenza Acciaierie d’Italia. USB ha ribadito con forza la propria posizione: prima vengono le garanzie per i lavoratori. Non è accettabile discutere del piano di decarbonizzazione in totale assenza di un intervento straordinario per l’occupazione.
Parliamo di oltre 10.300 lavoratori diretti di AdI, molti dei quali in cassa integrazione da anni, 1.700 di Ilva in AS, da oltre 8 anni in cassa integrazione a zero ore e almeno 5.000 nell’appalto. Una platea enorme, che rappresenta l’unico vero interesse generale in questa partita. Eppure, come già accaduto nel 2014, si ripete lo stesso schema fallimentare: si parte dal bando per una vendita “a qualsiasi costo” e si tralascia completamente il piano per l’occupazione.
La discussione odierna, pur utile ad aprire un confronto, non rassicura. USB respinge con decisione un’impostazione in cui la regia del processo è già segnata nella vendita al miglior offerente, senza prima definire gli strumenti di tutela, gli ammortizzatori sociali, le ricollocazioni, le misure straordinarie di accompagnamento che chiediamo da tempo.
Abbiamo inoltre espresso con chiarezza una preoccupazione di fondo: anche la firma dell’accordo di programma, per come si sta delineando oggi, rischia di essere soltanto un posticipo della vera partita, che si giocherà con l’imprenditore privato. Sarà quest’ultimo a presentare i propri “desiderata”, a imporre numeri e condizioni che, dal nostro punto di vista, saranno inevitabilmente pesanti.
È per questo che abbiamo rilanciato con forza la richiesta di una vera nazionalizzazione, come unico strumento di controllo pubblico in grado di garantire una transizione industriale equa, trasparente, fondata su occupazione, sicurezza e ambiente.
Per noi è chiaro: i commissari devono restare in carica fino al completamento della transizione, che deve essere poi governata da un soggetto pubblico. Diversamente, si ripeterà l’errore già compiuto con ArcelorMittal: arriverà un privato e, nella migliore delle ipotesi, resterà la metà degli occupati.
Lo diciamo con nettezza: senza garanzie per i lavoratori, non avvalleremo alcun accordo. Possono promettere anche 20 milioni di tonnellate di acciaio e forni da cui esce profumo, ma se non c’è un piano credibile per chi oggi tiene in piedi la fabbrica, la transizione sarà solo un’altra operazione di macelleria sociale travestita da green deal.
Prima si tutelano le persone, poi si discutono gli impianti. Un piano di decarbonizzazione serio deve includere, non ignorare, la questione occupazionale.
Ad oggi, per USB, un vero confronto nel merito non è nemmeno possibile: il documento presentato non contiene una sola riga sulle ricadute occupazionali e sui diritti di chi lavora. Anche la proposta del nuovo forno elettrico a Genova rischia di essere puramente aleatoria, in assenza di una visione d’insieme sulle ricadute occupazionali complessive. Per USB, questa è una mancanza inaccettabile.
Serve un cambio di rotta. Subito. Se si vuole davvero salvare la fabbrica, si deve partire dai lavoratori.