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Il racconto delle storie di malavita Ricordi

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Di Franco Presicci:

Le storie della malavita sono tante e qualcuna curiosa, quasi incredibile. Molte appartengono ai primi capitoli e i cronisti di oggi non ne hanno neppure sentito parlare. Non hanno il tempo dell’ascolto, con tutte le malefatte che ogni giorno devono registrare. Ci sono storie, testimoniate nei libri o nei giornali; e altre impresse nella memoria di vecchi cani da tartufo, che non si limitavano a seguire la quotidianità,le conferenze-stampa, a catturare le voci dei cosiddetti “trombettieri”. Spulciavano, pescavano, rastrellavano nelle pagine ingiallite, perché affascinati dal mestiere che praticavano. E cavavano chicche per le loro rievocazioni. Ai tempi in cui il “Giorno” aveva come vicedirettore Guido Gerosa, che essendosi occupato di cronaca nera al quotidiano del pomeriggio “La Notte” di Nino Nutrizio, un nome rimasto nella gloria del giornalismo, coltivava ancora la passione; e un giorno mi disse: “Ho un desiderio: rispolverare i vecchi fatti della malandra ascoltando polizia e carabinieri che hanno fatto carriera a Milano”.

Screenshot 20251102 061323E allora? “Allora ti dò l’incarico di farti il giro d’Italia, per rintracciare questi personaggi e farti raccontare i momenti più movimentati che hanno vissuto”. Proprio in quei giorni stavo ripercorrendo la vicenda di una rapina che, organizzata in ogni dettaglio, era saltata perché il capobanda era ubriaco. Storia vecchia che Vito Plantone, allora questore di Catanzaro, o Mario Jovine, di Venezia, avrebbero potuto raccontarmi con piacevolezza. La banda aveva deciso di assaltare un supermercato, ma la sera trovò il “boss” in stato di ebrezza e privo della pistola: l’aveva venduta non sapeva più a chi. Eppure non era una camarilla di mezze maniche. Lo avevano raccontato alla polizia i quattro della consorteria che erano stati catturati. I poliziotti caddero dalle nuvole, perché un fatto così strano non lo avevano mai sentito. Il capo era detto “lo straniero”, perché aveva vissuto all’estero ed espulso, essendosi macchiato la coscienza. Fu Ferdinando Oscuri, una delle colonne di via Fatebenefratelli, sede della questura di Milano, a raccontarmi questa storia, una volta in pensione e ammalato. Questa era una delle tante accolite criminali che agivano nel capoluogo lombardo. Oscuri e Plantone, il primo di San Ferdinando di Piglia e il secondo di Noci, le conoscevano tutte, le bande: dei Tir, del cinese, del lunedì…

E c’era quella che veniva a Milano in motocicletta da una località non molto distante, faceva il colpo e tornava indietro. Finì per dare sui nervi a Mario Nardone, il mito, il solitario, “il gatto” per il suo fiuto, che decise di acciuffarli. Cominciò a fare domande, a setacciare, a studiare la tecnica e alla fine venne a sapere il luogo in cui uno dei due aveva il nido. Ad operazione conclusa i giornalisti enfatizzarono, dicendo che Nardone per realizzare il colpo si era vestito da idraulico e invece si era solo presentato a un vicino facendogli credere di essere professionista di tubi e rubinetti. Poco dopo toccò al complice.

Certo è che Mario Nardone, un mastino silenzioso e solitario, sarebbe stato capace di indossare una tuta pur di neutralizzare una combriccola di “duri”, come in gergo di malavita si chiamano i rapinatori. Mi viene in mente la banda… del (lasciamo stare i nomi, troppo tempo è passato, potrebbero essere passati all’altro mondo, invecchiati, cambiato vita). Avevano in mente una rapina e non avevano un autista dotato di risorse rocambolesche in caso in cui fossero inseguiti dalla polizia o dai carabinieri e affidarono il compito a uno dei loro che aveva conoscenze dappertutto. La voce arrivò a un capitano dell’Arma in servizio nella caserma di via Moscova: un giovane abile, coraggioso, intelligente, da poco arrivato a Milano. “Vado io!”, disse ai suoi. “Ma, capitano…”. “Nessun problema, la mia faccia non è nota, so guidare bene… naturalmente, è ovvio, non devono sapere che ho i gradi…”. L’intermediario fu avvertito con ogni prudenza e il capitano venne presentato al capobanda, che si mostrò diffidente, ma volle metterlo alla prova. “Facciamo un giro per Milano”. “Bene”. Il capitano saltò al volante, mise in moto, si dimostrò un ottimo pilota e fu reclutato. Il giorno previsto, seguito dai suoi, comparve all’appuntamento, guidò come un pilota all’autodromo di Monza, convinse il “boss”, entrarono in un paese nei pressi di Milano e improvvisamente si sentì imporre l’alt. Erano vicini a un istituto di credito. “Tu resta in auto! Noi attacchiamo la cassa”. Durante il tragitto l’ufficiale aveva perduto la scorta, quindi era rimasto solo, ma non si perdette d’animo. I banditi, armati come un commando, compiuta l’azione, uscirono e via. Ma al boss venne in mente che il direttore dell’istituto di credito avesse avvertito la forze dell’ordine e che quindi potessero essere stati allestiti posti di blocco, così ordinò che si cambiasse strada. Il capitano eseguì. Il “boss”, seduto accanto a lui, gli ordinava di andare a destra o a sinistra e lui, pronto, faceva la manovra sempre con destrezza, tanto da ottenere la piena fiducia. Allora il carabiniere consigliò di mettersi le armi sotto il sedere, in modo che in caso di sorprese non fossero visibili e i banditi accettarono. Non incontrarono alcuna difficoltà; le strade non erano sorvegliate. Arrivarono in piazza Cavour, a Milano, poi via Moscova, all’altezza del portone della caserma l’autista voltò a sinistra con la velocità di Manuel Fangio, la leggenda della Formula 1, entrò rasentando la parete, la portiera della parte del capo non potè essere aperta e gli altri si trovarono addosso i piantoni. Missione compiuta.

I banditi spediti al “gabbio” (il carcere in gergo di malavita) e l’eroe osannato.
Giornata memorabile e densa di emozioni. Milano ne ha vissute tante. Qualcuno ricorda ancora l’assalto all’oreficeria di via Montenapoleone, in pieno giorno, bottino non so più quanto consistente. Il gruppo criminale non era formato da certo da dilettanti, ma da elementi di grande spessore criminale. Solo i nomi incutevano paura. C’era uno che chiavano “bocca cucita” e Mario Jovine, che allora era capo della Squadra Mobile, ce la mise tutta per fargliele aprire, quelle labbra. Niente da fare. Tentò addirittura un gioco. Si alzò, appoggiò una mano sulla scrivania e fece un salto. Invitò l’altro a fare altrettanto, ma quello non si mosse e continuò a rimanere muto. Ma il silenzio non fu produttivo: la dinamica dell’assalto venne chiarita, chiariti i ruoli. Quella rapina è rimasta nella storia. Un quotidiano del pomeriggio, “Il Corriere Lombardo”, come una scena di un film con Al Pacino, ricostruì l’azione e la riprodusse sulle sue pagine.

Venivano da Roma in aereo gli esperti della gomma a terra, smantellati da Mario Nardone, poliziotto eccezionale che se si trovava in situazioni particolari alzava la testa al cielo e mormorava: “Aiutami, papà”. Me lo raccontò lui stesso il giorno in cui lo intervistai in casa sua. Era già in pensione. Com’era il modo di operare di questi malviventi, gli domandai. “Si appostavano davanti a una banca, uno osservava i clienti e quando uno esigeva una somma rilevante lo seguiva e sulla soglia lo indicava ai complici, che subito bucavano una ruota. Quando la vittima si accorgeva che l’auto era azzoppata, deponeva la borsa con il denaro sul sedile e apriva il bagagliaio, Era allora che il denaro prendeva il volo. I banditi tornavano nella capitale più ricchi. Nardone intuì e i malviventi dovettero chiudere l’impresa.
Aprire il sipario sulla Milano nera è avvincente. A quei tempi – anni 50 e 60 – i cronisti andavano a piedi e i poliziotti in bicicletta, come Giovannino Guaraeschi quando era sulla plancia di “Candido”. Costava fatica mangiare pane e polvere, passare una notte al freddo per conquistare una notizia, ma se la si carpiva era entusiasmante. Cari, adorati vecchi cronisti. Erano la vecchia guardia e annoverava segugi come Arnaldo Giuliani, Fabio Mantica, Fabrizio Fusar, Salvatore Conoscente… Trottavano come un purosangue; passavano le notti più sulla strada che a casa, ma che cronaca. Ai neofiti la illustravano ogni tanto Ermanno Rea e Giancarlo Fusco, entrambi del “Giorno” e l’aveva conosciuta Franco Di Bella, quando era capocronista del “Corriere della Serra”. “Trova Joe Adonis e intervistalo”, disse a Mantica un pomeriggio. E Mantica onorò l’incarico, sgambando nella Milano piena d’intrecci di vie. Lo rintracciò in via Albricci, sotto la Torre Velasca, a forma di pugno, che secondo alcuni vuol dire: “Uniti nell’amore”. Di quella cronaca mi parlò una mattina sulla Michelangelo, una delle due regine del mare, sulla rotta di Casablanca, lo “chansonnier” Enrico Simonetti, molto amico di Giancarlo Fusco, che la sapeva lunga e amava raccontare quella Milano. Sembrava parlare di “Milano calibro 9” di Giorgio Scerbanenco.

(foto home page: Mario Jovine; foto interna: Umberto D’Amato e Vito Plantone)

 


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