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Vicolo dei Lavandai a Milano Ricordi

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Di Franco Presicci:

Vicolo dei Lavandai è un nastro in terra battuta, attraversata da un ricciolo d’acqua che sbucando dal Naviglio Grande finisce chissà dove. È un vicolo che non ha rumori, con cortili altrettanto silenziosi e ringhiere bordate d’edera. Almeno quando ci sono andato io la prima volta per incontrare un’istituzione del luogo: il pittore Guido Bertuzzi, un uomo discreto, generoso, di poche parole, che dipingeva sulle tegole a coppo, sulle cassapanche, sulle spianatoie e a volte sulle tele. Mentre danzavano le fiamme del camino, riceveva gli amici a braccia aperte e non di rado vedeva comparire le sagome di Bearzot e di Giovanni Lodetti, amicizie maturate ai tempi in cui giocava nel Milan ragazzi. Il padre di Guido, Anbert, al secolo Angelo, sentiva in questo vicolo le voci del passato; e anche “Milan che parla”, titolo di una delle sue riviste in cui c’erano Walter Chiari e Armando Brocchieri, poeta in dialetto meneghino. Morendo Anbert, rivolse il pensiero alla Milano che non c’è più: le voci degli ambulanti, come i polentai, vie come il Bottonuto, dove le falene si sedevano al centro della strada per aspettare i clienti…
Vicolo dei Lavandai non era cambiato. Era rimasto a staffa di cavallo, con i cortili pieni di studi di pittori (Pampinato, che veniva da Genova per bagnare i suoi pennelli nel Naviglio Grande, Sarik (Riccardo Saladin), ligure anche lui, che lasciò il vicolo per trasferirsi alla Fornace Curti; Formenti, Vitale, Cottino e la sua Galleria d’arte; Liuba Stolfa, che dipingeva sul vetro: e Angelo Cortina che aveva una Libreria Universitaria davanti alla Statale e la bottega qui, dove a volte vi è visto anche Bettino Craxi.

Da Cortina si allestivano serate con un fisarmonicista che faceva il tassista ed era un artista con la vocazione delle canzoni meneghine. Bertuzzi dipingeva i tetti, i comignoli, i cortili imbandierati di fiori, il vicolo, la tettoia, la famosa tettoia che adesso è vecchia ma si tiene solidamente in piedi. Ne ha vista di passaggi e di visitatori quest’architettura d‘antan, a cominciare dalle lavandaie, che rinnovavano i panni piegate sul “brellin”, una specie d’inginocchiatoio di pietra. La prima volta che ci andai, Bertuzzi mi indicò la porta della signora Elvira Radice, 91 anni, che per anni aveva venduto la lisciva alle donne.

Guido mi arricchiva di racconti ogni volta. Una mattina arrivai in tempo per vedere una bellissima modella mentre seppelliva il suo ccane, dopo averlo portato anche negli Stati Uniti per farlo guarire dal male. Mi disse di non farmi vedere e io fingendo di andare in uno studio notai che piantava dei fiori. Nel vicolo avevano abitato due spazzacamini, che un giorno decisero di tornare al loro paese e non si fecero più vedere. C’era il Carletto, un uomo in pensione che avevano nominato sindaco di quel pezzettino di strada, perché sorvegliava il “rizzulin” dalla finestra, scendeva a rimproverare chi sorprendeva a gettare in acqua anche un foglio di carta e magari rimuoveva personalmente lo sconcio…

Era simpatico e divertente, il Carletto. Come lo era Cortina, che piazzava il cavalletto sull’alzaia e si beava dell’atmosfera che lo circondava, imprigionando sulla tela il corso d’acqua ingoiato dalla nebbia. Era stato allievo di De Pisis, ma non se ne vantava. Il vicolo dei Lavandai era stato celebrato da Brocchieri come una chiesa di pittori. Maria Bussola, bassa, sottile, i capelli imbiancati, sugli ottanta, se spronata rivelava una memoria fertile e poteva riferire nomi e cognomi, professione, carattere di persone, per la verità pochissime, che avevano abitato da queste parti. Tremava ancora al pensiero delle bombe del secondo conflitto mondiale, che non erano cadute qui, ma sulla galleria, la Scala, piazza San Fedele… ma ne sentiva ancora il fracasso.

Non conoscevo l’etichetta assegnata sl vicolo dei Lavandai per la sua aria da Montmartre. Ci sono venuti attori e registi, vi hanno girato scene del commissario Maigret con Gino Cervi; e c’era stato lo stesso Simenon. Lo hanno decantato poeti e scrittori: Alfonso Gatto e Carlo Castellaneta, Gaetano Afeltra, che appena arrivò a Milano, nel ‘39, prese alloggio in una pensione sul Naviglio Martesana, che lui amava raccontare nei suoi elzeviri soprattutto per i lettori invaghiti della sua “verve”. Milano era l’amore di don Gaetano, pilastro del “Corriere della Sera” e direttore prima del “Corriere d’Informazione e poi del “Giorno”. E le ha dedicato anche un libro, descrivendo i ristoranti della Galleria Vittorio Emanuele dal Savini al “Santa Rita”, non trascurando la loro storia e persino gli arredi, oltre ai frequentatori.
Sono venuto spesso in questa zona, anche per incontrare un personaggio che non c’è più, Gigi Pedroli, grandissimo acquafortista e cantautore brillante e geniale. Tutti conoscono il suo Centro dell’Incisione, che sta dalla parte opposta del vicolo ed è diretto dal figlio Alessandro. Gigi mi narrava degli anni in cui sul Naviglio, costruito nel 1179, abitavano i meridionali. Poi gli affitti alle stelle li hanno spediti altrove e hanno fatto chiudere i laboratori degli artigiani.
Durante le conversazioni con Guido Bertuzzi emergevano gli uomini dei barconi, spariti anche quelli; “el barchett de Boffalora”, la cui attività ebbe inizio nel 1777 ed ebbe il momento più felice nel 1830. Oggi non ci sono più i barconi, parcheggiati da qualche parte, ma sono rimaste le bitte proprio di fronte al vicolo.

Ho avuto l’occasione di ammirare l’ultimo barcone (non saprei dire la data: anche la memoria ha i suoi limiti), in una delle feste del Naviglio Grande, quando sui ponti s’innalza il gran pavese e la gente s’incolonna dinanzi alle bancarelle, costringendo il corteo a deviare. Che festa! Con le imbarcazioni che solcano il Naviglio e corrono fiancheggiando cascine, castelli, prati… Qualche anno fa c’era la Visconteaa tagliare le acque, progettata dall’architetto Empio Malara, dalla lunga militanza nella difesa di questi canali.
Bertuzzi mi diceva di aver saputo dalla vecchia titolare dei suoi striminziti locali che in un lontano passato questi avevano ospitato un’osteria , dove a volte si faceva vedere il maresciallo Radetsky. Vero o falso che fosse, qualcuno ci credeva c’era e diffondeva la voce. Che belle ore quelle passate con Guido, che era diventato amico. Mi disse fra l’altro degli scherzi atroci che i ragazzacci facevano alle lavandaie: prima che queste stendessero i panni, sulla spalletta del naviglio colavano un acido che faceva svolazzare i due pezzi come aquiloni. Il pittore non ebbe il tempo di vederle al lavoro né mentre sorseggiavano un biccherino di grappa per scaldarsi. I monellacci facevano anche altro: s’ammandriavano e sbirciavano il lato “b” delle donne piegate sui mastelli.
Ero da poco arrivato a Milano e cominciavo a conoscerla anche per gli articoli sulle vie storiche che realizzavo per Tele Monte Penice, un’antenna delle parti di Voghera, quando Gudo m’invitò a presentare una sua cartella di acqueforti nella Galleria di Angelo Cortina. “Come mai hai pensato a me? L’idea non sarà molto gradita. Un terrone da poco sbarcato da un carro bestiame che descrive Milano è strano”. Non volle sentire ragioni e con un po’ di imbarazzo illustrai la cartella, che conteneva la mia presentazione scritta. Mi aveva incoraggiato Ugo Ronfani, vice direttore del “Giorno”.

Screenshot 20251019 053338Quando Bertuzzi se n’è andato, vicolo dei Lavandai è per me solo un ricordo. Ripenso spesso al calore di quelle stanzette, con due ingressi: uno dal vicolo e l’altro dal cortile, dove i fiori messi a dimora sulla tomba del cane sono appassiti. So che i pittori che ho conosciuto anche sull’alzaia non ci sono più. E non c’è più neppure Romualdo Caldarini, che aveva una galleria sull’alzaia ed è stato per lungo tempo presidente dei pittori di via Bagutta. Mi restano alcune foto, regalatemi dallo Bertuzzi. Ripreudono un gruppo di donne all’inizio del ‘900 che sciacquano i panni nell’acqua. In un’altra, gli incavi incisi secoli fa per facilitare il passaggio dei mozzi dei carri. E’ stato bello vivere nel vicolo – mi dice un amico che ogni tanto mi telefona, quando non viene a trovarmi – Era come nelle case di ringhiera: ci si aiutava, si conversava piacevolmente, mai una lite, ma pace e silenzio”.

 


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