Di Franco Presicci:
Mi capita si sognarla, la via D’Aquino di tanti anni fa, con tutti quelli che vi incontravo, facendo avanti e indietro da piazza Maria Immacolata fino a piazza Garibaldi. Più in là c’era il cinema Vittorio e di fronte il circolo dei nobili, da cui vedevo uscire Antonio Rizzo, direttore de “La Voce del Popolo”, dove scriveva tra i pochi tarantini eletti Alfredo Nunziato Maiorano, poeta ed etnologo, in corrispondenza con Rolfh, autore della “Grammatica italiana e dei suoi dialetti”. Rizzo, eminente critico teatrale (richiesto dal “Giornale d’Italia”; anima del Premio Taranto, nel ‘51), attraversava la strada a passo svelto con un completo bianco e cappello.
In via D’Aquino ci andavo con Serafino Schiedi, insegnante d’italiano alle medie. Un bel ragazzo che occhieggiava il… bello, ma con garbo, senza commenti e senza pruriti. E quando m’imbattevo in Minguccio Montrone, poi direttore delle Poste a Varese, era uno spasso solo a vederlo: mi abbracciava, baciava, mi faceva insomma festa, anche se lo avevo salutato la sera prima. A volte si muoveva come il Totò dei primi tempi, un giocattolo snodabile, e lo faceva per gioco. Sempre su di giri, portò in scena al cinema Dopolavoro Ferroviario, quindi all’Orfeo, “’U cuèrne de Marje ‘a Canzirre”, un atto di Diego Marturano, già recitata da altri, e da lui stesso, al Circolo dei Marinai durante una festa della matricola.
Ogni tanto intercettavo il pittore Rino Di Coste, che poi si trasferì a Roma con altri nostri talenti: Ciccio Boniello, per esempio, capace di riprodurre su tela un Raffaello in modo così perfetto da farlo sembrare autentico. Vedevo passeggiare Mario Ligonzo, curatore della prima pagina de”Il Corriere del Giorno”, sempre in compagnia di una splendida ragazza, che se non sbaglio era segretaria al Partito Liberale. E mi capitava di scambiare due parole al bar con il professor Pesiri, grande uomo, generoso, leale, amabile, titolare di una scuola di corrispondenza per marinai quasi di fronte al ponte girevole. Di persone come lui, onestissime e disponibili, ne ho conosciute poche. Lo ricordo con gratitudine e affetto. Mi dette ottimi consigli in molte occasioni.
Avevo poco più di vent’anni. Via D’Aquino era sempre affollata. A volte ancora di più. Era un fiume umano che fluiva silenzioso e tranquillo, fra negozi brillanti e sapientemente addobbati: la libreria di Antonio Mandese; il tabaccaio; il Bar Principe all’angolo con via De Cesare; la drogheria del papà del pittore Raffaele D’Addario; e poi la Chiesa del Carmine; il Banco di Napoli; la Dreher, la Sem; dove la domenica, ai tavoli esterni, si intratteneva la crema della città… E c’era anche l’edicola di Fucci.
Via D’Aquino era il luogo degli appuntamenti. L’altro era il “Cin cin bar”, appena svoltato l’angolo con piazza Maria Immacolata, dove gli universitari il sabato sera disertavano la via dello struscio e si davano alle danze. I tavoli, da cui sprizzava allegria, erano sempre tutti occupati. Ogni tanto compariva il dottor Giuseppe Barbalucca, pediatra con l’amore per la scrittura. Qualche ospite prendeva il microfono e cantava e una volta quello di turno venne applaudito dal famoso cantante, attore, sceneggiatore, presentatore Silvio Noto, che aveva captato la voce dalla prima sala mentre gustava una bibita.
“Ci vediamo in via D’Aquino” era la parola d’ordine. In via D’Aquino s’intrecciavano conversazioni; fiorivano o impallidivano amori; si facevano scherzi, spesso con la collaborazione di Màrc Pol, che non mancava di offrire la schedina del totocalcio e una copia “d’u Panarijdde”, confezionato nella tipografia Leggeri nella via parallela.
Difficilmente esplodevano liti, e quelle poche erano così flebili che sfuggivano all’attenzione della massa. Mi riferisco ai tempi in cui non c’era ancora il bar con i tavolini al centro della strada e c’era chi pedalava e chi guidava la cilindrata. Oggi vietati. All’edicola Fucci qualche universitario leggeva il giornale senza pagare. Uno di loro, Marcello Ruggieri, la testa fitta di letture impegnative, come “La costituzione americana”, dopo la laurea se ne andò a Roma, dove divenne un importante operatore culturale, scrivendo libri; un fratello, Ninuccio, faceva il veterinario e l’altro, Ruggero, preferì Bologna, la dotta, la grassa, la saggia, dove venne reclutato in un’azienda rilevante con il compito di dirigente sul piano nazionale. E sfornava libri gialli, uno pubblicato da Bompiani. Già sottotenente di carriera a Bari, alla caserma Picca, amato e stimato, un giorno, facendo il saluto al colonnello, non gli scattarono i tacchi, perché indossava scarpe acquistate al mercato; il superiore andò su tutte le furie e il carissimo Ruggero, Gerino, per gli amici, capi che la divisa non era fatta per lui o viceversa: meglio continuare gli studi di economia, all’ateneo “Aldo Moro” di Bari.
Eravamo giovanissimi, quando Ruggero accettò di recitare ai Salesiani un testo, “Il piccolo ateo”, scritto da me saccheggiando un po’ qua un po’ là. Durante lo spettacolo una quinta cedette e per poco non ci venne addosso. Un miracolo.
Un giorno Ruggero decise di andare a Bari in bicicletta. Per riposarsi si stese su una panchina pubblica e un vigile, materializzandosi all’improvviso, lo multò. E lui: “Mi ha fatto piacere essere contattato da quel graduato sorridente e cortese”.
Giovanni Acquaviva, tra i fondatori de “Il Corriere del Giorno” e direttore, ha lasciato belle pagine su via D’Aquino, tra l’altro ricordando le signore sempre vestite con eleganza, che dopo aver fatto la ronda più volte andavano a messa nella chiesa di San Giovanni di Dio, di fianco all’ospedale Santissima Annunziata. E riferì anche la… leggenda del prete che “scivolò” come alcuni suoi fedeli, contravvenendo al dovere di castità.
Una sera Màrc Pòl, figura caratteristica e adorata, tagliò la marea urlando: “Uagnè, facìt’attenzione a… (nome e cognome), ca quìdde de peccennòdde ne tene ‘nu mùnne, e ce ve dìce ca ve vòle spusà’ jè ‘na buscie”. Lo ripetette più volte marciando, mentre la “vittima”, che ascoltava, si mostrava compiaciuto.
Fucci era un tipo a volte brusco e a volte gentile. Tra i clienti aveva il principe del foro Mario Fornaciari, con studio sui magazzini Standa. Ascoltare una sua arringa era più seducente di un’esibizione del grandissimo Vittorio Gassman. Eloquenza dotta, galantuomo, sempre padrone della scena, abile nel citare i classici greci e latini.
Ci fu il tempo in cui in via D’Aquino passeggiava il poeta Raffaele Carrieri, accompagnato dal suo sarto, Portaccio. Poi decise di non tornare più e le notizie a Milano gliele portava il giornalista Michele Calabrese – direttore di un settimanale – che per un breve periodo si era stabilito nel capoluogo lombardo, in un residence di corso Como, dove alloggiava Mario Ligonzo, prima di trasferirsi in una storica casa di ringhiera di corso Garibaldi (Mario era stato redattore de “Il Corriere del Giorno”, trasferendosi poi Milano, dove venne reclutato al “Corriere d’Informazione” di Gaetano Afeltra, quindi dal “Corriere della Sera”, lavorando nella Sala Times.
Non tutti i tarantini espatriati tornavano come gli uccelli al nido. Eppure Taranto dovrebbe essere un luogo del cuore per tutti i nativi, via D’Aquino compresa. Io non posso fare a meno di venirci come in pellegrinaggio, ogni volta con la mente piena di ricordi: la Casa del Libro, fin da quando stava in via De Cesare gestita dal cavalier Antonio, papà di Nicola; Giacinto Peluso, docente al Liceo Scientifico e scrittore; il giornalista Livio De Luca, abruzzese a Milano e poi volato a Taranto per amore, approdando al quotidiano locale …
In via D’Aquino ho passeggiato con Piero Mandrillo, docente e intellettuale celebrato anche a Wellington, dove insegnò la nostra lingua all’università. Veniva spesso a Milano e andavo a prenderlo alla stazione, avido di chicche su Taranto. Non potendo viverla, mi facevo raccontare le storie da lui o da altri amici che per una ragione o per un’altra salivano al Nord.
Mi mancava il dialetto, quello che si parlava nella città vecchia, da cui attingeva Alfredo Nunziato Maiorano. Quanti ricordi irrompono! “Promesse di marinaio”, il film girato a Taranto nel ‘58, regista Turi Vasile, protagonisti Antonio Cifariello, l’attrice tedesca Inge Shoener, Renato Salvatori, Alberto Bonucci, Luigi Pavese, Rosario Borelli (che incontrai dopo qualche anno in corso Vittorio Emanuele, a Milano, seduto davanti al Bar Haiti, afflitto, perché la casa cinematografica, la Titanus, valorizzava più Maurizio Arena che lui. Girarono anche nello stabilimento balneare “ Praia a mare”, sulla via per San Vito, dove a mezzogiorno gustarono avidamente un piatto di pasta con le vongole. Alcuni “ciac” echeggiarono in piazza Garibaldi, dove nella scena del Teatrino delle marionette c’era Antonio De Florio, all’età di sei anni; e in piazza Maria Immacolata, richiamando una folla che per l’autografo avrebbe sfondato i limiti imposti.
La sera in via D’Aquino se ne parlava. C’era chi aveva visto recitare Cifariello, che allora aveva una miriade di “fans”, ed era eccitato; e chi Alberto Bonucci, attore bravissimo e alla mano. Rivedo Salvatori, fuori dal “set”, che urla, rivolto non so più a chi: “Prima o poi si capirà la grandezza di Totò!”, mentre qualcuno all’hotel di viale Virgilio notava Vittorio Gassman, alto, atletico, un sorriso aperto, cordiale. Viaggio molto sulle ali dei ricordi, sorvolo Taranto, vi atterro con il cuore in mano. Taranto mi dà gioia, mi fa piangere per le sue ferite, mi fa respirare la dolcezza “d’u Mare Peccerijdde”.