Di Franco Presicci:
È morto il pittore Emilio Marsella, noto per le sue donne di Maruggio, donne forti, possenti, abituate alla fatica della campagna, dove sostituirono i mariti durante l’emigrazione . Le rivedo, quelle donne, nei quadri di Marsella, attorniate da figli e nipoti o con una zappa sulle spalle o inginocchiate a un’edicola a pregare o in corteo dietro un simulacro. Ho sempre ammirato quelle donne, come ho ammirato quelle di “Fontamara” di Ignazio Silone. Marsella conosceva le “sue” donne e le amava, tanto che le impresse anche nell’argilla cotta alla Fornace di Alberto Curti.
Scrissi molto di lui, della sua arte, della sua vita quotidiana, delle sue mostre: Nella galleria di Malagnino, nell’hinterland milanese, lo presentò nel catalogo e a voce Ugo Ronfani, vice-direttore del quotidiano “Il Giorno”, uomo coltissimo, per anni corrispondente da Parigi, dove intervistò Rostand, Sartre e tante altre personalità e mandò in stampa libri sul teatro parigino, su monsignor Lefebvre, che fece tanto parlare di sé…, un romanzo, “La toga rossa”.
Ronfani ammirava le tele di Marsella, che in una delle sue prime mostre imbandierò il capoluogo lombardo di manifesti. Ricevette un premio a Maruggio e in una serata affollatissima fu presentato dal professor Paolo De Stefano, preside del liceo classico “Quinto Ennio” di Taranto. Sempre a Maruggio espose nel castello dei “Cavalieri di Malta” e un critico locale impegnato nella illustrazione dei quadri paragonò le donne di Marsella alla prefiche, che piangevano a richiesta i morti degli altri. Prefiche? Ebbi l’impulso di prendere la parola per contraddirlo, ma ci rinunciai per non provocare una polemica. Marsella era molto legato al suo paese. Ci tornava non solo d’estate restandovi a lungo, ma anche d’inverno per leggere le sue poesie nelle scuole.
Aveva sempre nostalgia di Maruggio, un forte desiderio di tornare, per passeggiare in piazza, dove incontrare gli amici della giovinezza e conversare con loro sul tempo andato. Era solito parlare del lavoro fatto prima di studiare da tecnico di radiologia (professione che esercitava al Centro diagnostico di Milano). Era stato garzone di falegname, con un maestro severo e puntiglioso che lo voleva bravo nel fare porte e mobili. Ma lui voleva diventare artista.
Un giorno il padre, soprannominato “Musuline” per la sua severità, lo sorprese a disegnare con un rametto sul terreno; e gli disse che se proprio “gli piaceva fare quelle cose”, lui gli avrebbe comperato una scatola di colori. Emilio venerava il padre e la madre e ubbidiva. Quando in famiglia si convinsero che quel figlio aveva talento lo lasciarono andare. Con il pullman andava a Martina Franca, alzandosi molto preso, per frequentare il liceo classico “Tito Livio”, e con lo stesso mezzo rientrava a casa. Nei momenti liberi disegnava.
Nel ‘50 venne a Milano (“Da Maruggio venni…”), dove cominciò a conoscere gente, avere qualche contatto importante, come quello con il critico Carlo Franza. Appese i suoi quadri alle pareti del ristorante di Nadia e Aimo e lì rimasero per anni fino a quando Aimo non cedette le redini del locale. Sue opere erano in bella vista anche al Centro Diagnostico.
Dipingeva anche nella sua villa di Campomarino, che si affaccia sul mare con le sue dune, l’acqua limpida, la spiaggia pulita. Lì riceveva gli amici e li teneva a pranzo, mostrando loro il suo pezzo di terra, le sue vigne gravide, gli ulivi. E anche le opere esposte nel salone. Era un uomo generoso. A Milano aveva casa in periferia e lo studio nello stabile in cui abitava la mamma di Silvio Berlusconi, che si faceva aggiustare le scarpe dal calzolaio con il deschetto di via Lorenteggio.
A Maruggio ebbe la visita di Achille Serra, allora capo della quadra Mobile di Milano e poi questore della stessa città e prefetto di Roma. Era accompagnato da un giornalista amico di entrambi. Amico del questore Vito Plantone e di sua moglie Emma, si scambiavano spesso inviti a cena. Era amico d’infanzia di Gildo Bandelli, famoso industriale di Merate, di Maruggio anche lui, che aveva fatto rilevanti invenzioni anche quando stava in Costarica. Gildo ricevette un premio della Fondazione Nuove Proposte di Elio Greco al Circolo della Stampa di Milano, presente fra gli altri Livia Pomodoro, presidente della Corte d’Appello e sorella del grandissimo Arnaldo, deceduto in questi giorni.
Opere del pittore maruggese vennero presentate alla Cripta del Bramantino nella basilica di San Nazaro, Nel catalogo Wolfango Pinardi: “La sua arte, quasi una sintesi espressiva che sa di romantico esprime con una originale tavolozza la semplicità di una narrazione suggestiva ed efficace che avvince e conquista anche l’osservatore più esigente e culturalmente preparato… Il cromatismo delle sue composizioni sa raggiungere momenti di intenso lirismo, che trasmettono l’emotività schietta che l’autore ha provato in tutti i suoi dipinti…”. Un altro commentatore: “Le donne di Maruggio, i ragazzini e i vecchi di questo paesino fatto di tufo sono i protagonisti anche nei giorni della raccolta delle olive…”.
Quasi sempre donne: davanti alla vedovella per raccoglie acqua nei secchi o nei bottiglioni o accosciate all’ombra di un albero negli attimi di riposo. In questi c’è aria di una lunga attesa fra il biancore evanescente delle case: case povere, di contadini. E c’è il sole che avvampa. Le donne di Marsella sono personaggi da tragedia greca, in apparenza scolpite in un tronco di quercia come giganti. “Le vedevo così enormi quando ero bambino, le sentivo energiche. Sempre vestite di nero come monache di clausura”. Con le sue tele Marsella racconta storie di miseria, sacrifici, lavoro pesante dall’alba al tramonto per rendere fertile la terra e la vigna e gli orti. Donne e vecchi seduti su sassi imbiancati come sepolcri. Guardi quelle pennellate ed evochi “L’uva puttanella” di Rocco Scotellaro.
Nacque così il “ciclo del vinti”, personaggi pieni di ferite, ma saldi, la cui esistenza è magra, ma non manca il coraggio di andare avanti a dispetto del camino troppe volte spento, delle delusioni, delle speranze mai realizzate, degli orizzonti neppure immaginati. Pittore della memoria, traduce i ricordi con pennellate ampie, carezzevoli e impianti cromatici ricchi di luce. “Quando ero piccolo vidi tre morti di broncopolmonite nella mia famiglia. Una sera chiesi: ‘Papà…’. Mi fermai a quella parola, perché lui non rispose, ma lessi nel suo sguardo la disperazione: era morto mio fratello”. Questo evento è vivo in alcuni quadri di Marsella.
Amo la pittura di quest’artista; amo le sue vedute del Cristo. Le donne che si stagliano come colonne con i figli acculati ai loro piedi, il mare calmo e piatto come una lastra di marmo, il mare che lecca la battigia e si ritira, intonando una musica dolce e riposante. “Ami il mare?, Emilio”, gli domandai una sera in un ristorante di Crispiano, invitati dall’indimenticabile Michele Annese, direttore della locale biblioteca. “Mi piace vederlo, osservare i suoi movimenti, i suoi cambiamenti di umore; mi piace la sera quando si riempie di stelle d’argento. Il mare è buono, terribile quando diventa cattivo, capace di travolgere un’imbarcazione e d’inghiottirla”.
A volte puntava lo sguardo su un suo quadro e sorrideva compiaciuto. Quando usciva su un giornale un articolo che parlava di lui non nascondeva la sua gioia. Peccato che non abbia voluto esporre le sue sculture, che teneva allineate su un lungo mobile di casa. Il professor Francesco Lenoci, uno dei tanti suoi amici, dice che era un femminista convinto. Nei suoi quadri ha celebrato, esaltato le donne. Era buono, ospitale, innamorato di Maruggio e di Martina Franca, dove andava spesso. “I suoi amici Aimo e Nadia, che lo stimavano e gli volevano bene, nel loro ristorante, attaccato allo stabile in cui Marsella aveva lo studio, riproducevano nei piatti i colori dei suoi quadri; e quando Aimo andò il Cina per lavoro portò con se una sua opera tra le più toccanti.
Emilio Marsella se n’è andato in silenzio, dopo aver detto alla moglie Franca che voleva tornare a Maruggio è sepolto nella cappella di famiglia.
Franco Presicci