Di Enrico Pellegrini:
Le trasformazioni subite dalle nostre città negli ultimi trent’anni hanno segnato un punto di rottura con il ruolo da esse assunto nel passato. L’espansione urbana dell’ultimo secolo ha fatto emergere numerosi problemi e conflitti in parte latenti. Il modo di vivere in una comunità urbana è diventato il nuovo punto di riflessione che ha accomunato e continua ad interessare molti studiosi contemporanei in virtù di quella insita difficoltà nel decifrare i segnali provenienti da grandi realtà, come le città metropolitane e le megalopoli, dove, spesso, alcuni gruppi umani sono relegati ai margini di un processo di trasformazione ad alta velocità. Il ripensamento dello spazio urbano, come luogo relazionale e di scambio, ha fatto emergere nuove problematiche riconducibili a quella che alcuni definiscono la “questione urbana”, un fenomeno in cui la città diventa oggetto di riflessione e di ricerca per un ripensamento ed una rivalutazione dei luoghi che la caratterizzano.
La difficoltà di individuare un nuovo registro di lettura degli spazi urbani si è materializzata nell’esigenza di nuove strategie governance del territorio e di nuove mission più adeguate alla velocità dei cambiamenti che la stessa città è chiamata a gestire e vivere. La crescente marginalizzazione di aree suburbane accompagnata dall’effetto crisi economica che ha reso deserte quelle che un tempo erano designate come aree industriali, la creazione di dormitori di accoglienza distaccati dalla vita del centro città, l’abbandono di alcuni centri storici, diventati nel tempo centri di accoglienza a basso costo dove trova terreno facile la delinquenza e l’emarginazione sociale, pongono in primo piano l’esigenza di sopperire allo svuotamenti degli spazi urbani con politiche di rivitalizzazione e di inclusione di quelle aree destinate all’abbandono per dar vita ai grandi magazzini del consumo. Ma in un quadro così difficile e sempre più complesso come quello della città contemporanea appare sempre più stringente il bisogno di riproporre il centro urbano con i suoi valori storici e culturali anche se per alcuni decenni è stato trascurato a favore di una forte aggressività commerciale espressa per lo più nelle aree più periferiche delle metropoli.
Molti teorici hanno utilizzato la metafora urbana per significare lo stato di disagio sociale e di forte crisi della società contemporanea, frutto di uno spiccato individualismo contrario alla ricerca di quel bene comune necessario alla sopravvivenza di qualsivoglia comunità.
La città contemporanea, quindi, necessita di un ripensamento partendo dalla rielaborazione di quella scala gerarchica che fa di ogni luogo una località centrale per servizi e beni offerti. Un ripensamento in termini di pianificazione urbana e allo stesso tempo un ripensamento della governance del territorio.
Nuove strategie di marketing territoriale sono emerse negli ultimi decenni, in Italia, finalizzate a promuovere in modo più incisivo il valore del centro urbano e dei suoi spazi. Nel corso degli ultimi decenni ad una logica di governance calata dall’alto, dove gli enti locali dettavano l’agenda delle priorità con esigenze di pianificazione e gestione territoriale spesso incontrollate, si è fatta strada una diversa prospettiva che, partendo dal basso e dalle esigenze di coloro che la città la vivono, ha reso necessaria la costituzione, ad esempio, di nuove forme aggregative, suppletive del compito per secoli delegato alla centralità istituzionale. I comuni con le loro giunte non sono più in grado di garantire la pluralità di servizi offerti in passato a causa di numerose concause che hanno limitato la possibilità di intervento delle singole amministrazioni, sempre più bloccate dall’impossibilità di investire in modo adeguato le poche risorse economiche di cui dispongono.
In questo contesto la nascita in Italia dei Distretti Urbani del Commercio (DUC) emerge dall’esigenza di un urban change, di un ripensamento totale della realtà urbana, inteso come risposta al cambiamento di prospettiva.
A patire dagli ultimi decenni del secolo scorso, il forte richiamo a temi legati all’emergenza ambientale, alla salvaguardia del pianeta e alla priorità di un costante impegno a favore di un’economia più sostenibile, ha aperto un grande varco verso la messa in discussione di alcuni schemi rigidi di interpretazione della realtà. La città in tal senso è diventata il primo focolaio di una rivoluzione culturale ancora in atto che ha distrutto i vecchi assunti interpretativi. Oggi la città rappresenta il primo luogo in cui emergono conflitti e problemi che riescono ad assumere un’eco ed una portata internazionale. In un mondo sistemico come il nostro appare difficile svincolare problemi urbani, spesso condivisi da cittadini di diverse parti del mondo, da problemi sociali e culturali di macro dimensioni. Il ripensamento della città porta con sé una nuova istanza ai bisogni dell’uomo che non può essere relegata ad un circoscritto localismo. Il marketing urbano, in tal senso, rappresenta una risposta ad un nuovo ruolo svolto dalla città contemporanea. Appare del tutto insufficiente l’individualismo imprenditoriale slegato da una logica di sistema che vede l’area urbana interconnessa con la sua molteplicità di servizi offerti. Il singolo imprenditore non può essere slegato da una logica corale di pianificazione territoriale finalizzata ad evitare la chiusura del proprio esercizio commerciale. Ripensare i centri urbani è un dovere oltre che una esigenza di tipo commerciale. Il centro urbano, come luogo portatore di valori, di identità e storia, va rivalorizzato per favorire il ruolo di attrazione commerciale e turistica da esso svolto. La crisi che negli ultimi anni ha colpito le grandi strutture commerciali periferiche si è tradotta, in molti casi, in una rincorsa alla conquista di posizioni meno decentrate rispetto alla vita urbana. Questa crisi ha visto la chiusura di
punti vendita afferenti a importanti marchi, in passato impegnati in una conquista incontrollata dell’area suburbana in cui è prevalsa una logica di lottizzazione favorevole alla concessione di importanti licenze, depauperando gran parte del paesaggio e dell’ambiente periurbano. La sofferenza di queste mega strutture ha reso inevitabile un ripiegamento verso il centro dei consumatori e dei cittadini.
Il ripensamento degli spazi urbani ha vissuto differenti fasi che hanno coinvolto archi temporali abbastanza lunghi, tanto da far sì che questi venissero riconosciuti con il termine “generazione”. In urbanistica si è soliti distinguere tre “generazioni” che dalla metà del secolo scorso hanno inquadrato tre livelli differenti di intervento sullo spazio urbano in funzione delle grandi trasformazioni apportate in base a dei concreti cambiamenti di esigenze che trovano la propria ragione in specifiche situazioni storico-culturali. Svincolare tale esigenza dalle trasformazioni endogene della società contemporanea svierebbe ogni indagine dal vero punto focale di riflessione. Fu, in sostanza, proprio la ricostruzione post bellica ad avviare, nel nostro Paese, un lungo periodo di trasformazione urbana tuttora attiva. A questo va aggiunto il richiamo ad alcuni interventi che hanno del tutto modificato intere aree urbane dando vita a esempi di architettura post-moderna poco legati a dinamiche di condivisione dal basso e piuttosto frutto di forme esasperate di egocentrismo architettonico.
In fondo si sono accettati interventi di trasformazione urbana scambiando fenomeni di archistars con pseudo miglioramenti degli spazi urbani. Si è passati da esigenze di ricostruzione basate su concrete esigenze di funzionalità, in quanto nel ventennio post bellico l’Italia andava risollevata dalle rovine, all’importazione di modelli di urban design che anche nel nostro Paese hanno pian piano attecchito, rispondendo a quei fenomeni di postmodern urbanis sviluppatisi oltre oceano.
A fronte di tutto ciò, però, l’indebolimento delle reti distributive locali ha portato alla nascita del fenomeno del food desert, sviluppatosi prevalentemente nelle grande aree metropolitane. Lo straordinario potere delle grandi catene di megastore e ipermercati ha pian piano cambiato il volto delle nostre città, guidando i consumatori verso una nuova gerarchia urbana a discapito del centro, il più delle volte abbandonato al proprio destino.
La nascita dei Distretti Urbani del Commercio può essere imputata ad un bisogno, per molti anni inespresso, di cambiamento dal basso, dove la resilienza del piccolo commercio di vicinato si è fatta strada per rispondere a logiche centrifughe di pianificazione del commercio urbano. Così come il fenomeno dei grandi ipermercati periurbani è giunto in Italia con vent’anni di distanza rispetto ad altri Paesi occidentali, allo stesso modo la nascita dei Distretti del Commercio, nel nostro Paese, è avvenuta con notevole ritardo rispetto al resto d’Europa. A tutt’oggi non possiamo dire che in Italia si sia pienamente e in modo uniforme diffusa la logica distrettuale per il commercio urbano, troppe le differenze territoriali e le difficoltà di promuovere in modo condiviso, al di là di ogni possibile individualismo, una via o un’intera area urbana.
In questo lavoro si cercherà, senza alcuna pretesa di esaustività, di delineare un quadro complessivo del nostro Paese, focalizzando la ricerca sul fenomeno dei Distretti Urbani del Commercio e analizzando un caso studio riferito alla Provincia di Varese. Molto ancora andrebbe fatto per un’analisi di tutti quei fenomeni che, in Italia, pur con denominazione diversa sono stati concepiti con la stessa logica distrettuale dei distretti urbani, un esempio sono i Centri Commerciali Naturali della Toscana.