Di Franco Presicci:
Ultimi giorni di vacanza e un giretto per la campagna di Martina è ristoratore. Al volante è Vito Argese, un carissimo amico che scalpita quando perde a scopone, ma per fare teatro. Conosce bene ogni angolo di questo eden e mi indica pozzi antichi e solitari ancora utilizzati, fontane, masserie, boschi, boschetti, la vecchia scuola rurale da tempo deserta, le chiesette della Madonna della Consolata e di sant’Irene…. Guida e descrive i luoghi, ma fa anche i nomi dei proprietari, dei contadini che con il loro lavoro sono riusciti a guadagnarsi casa e terra. Parla a pizzichi e bocconi, perché tutte gli autisti che ci incrociano lo salutano anche a gran voce. Gi vogliono bene tutti.
Ci fermiamo all’ombra di una quercia secolare, altissima quanto un gigante preistorico e lui indica una struttura agricola e racconta la vita del titolare, la famiglia, l’attività, lo pseudonimo che si porta addosso da sempre, magari ereditato dal padre e dal nonno. Mia moglie e io lo ascoltiamo con piacere anche per il modo di porgersi, il linguaggio, mezzo italiano e mezzo martinese, più efficace il secondo e più seducente. Il dialetto attira sempre chi lo ama, io tra questi. Vito ha toni diversi, qua e là accentuati; usa termini come “tatanùnne”, “pescrèje”, “quànne”, che disseppelliscono ricordi di altri tempi, di persone care che le usavano come lui. “’A staggione” con la “g” raddoppiata e la “o” sonora. A volte ho bisogno di tempo per interpretare questo vernacolo.
I racconti di Vito sono ricchi di figure, di luoghi scomparsi, di fatti lontani, di leggende antiche. La macchina avanza e il paesaggio si snoda donando vedute indimenticabili. Io tra me e me saluto Martina con rispetto e devozione, nei pochi momenti in cui Vito tace. Ammiro tutto ciò che mi passa sotto gli occhi, il cielo terso in cui navigano nuvole bianche, tutto questo verde, i fichi, gli ulivi, le vigne, i muri a secco ancora intatti… “Questa è la vecchia strada per Noci” e fa i nomi delle famiglie che abitano nei dintorni, dei loro parenti e dei loro antenati. In quel trullo abitava Nicola … poi lo ha ha venduto a Narduccio… è stato rivenduto e rimesso a nuovo”.
Improvvisamente colgo un’immagine che mi rattrista: un trullo diroccato divorato “da le scruèsce”: i rovi. Quest’erba selvatica e pungente mi irrita quando gronda dai “pareti” o addirittura sovrasta le case incappucciate abbandonate: i proprietari diventati vecchi non vengono più in campagna e i figli che lavorano e abitano al Nord non hanno interesse a ripristinarlo. Ogni lenzuolo di terra desolato, ogni trullo derupato, ogni muro a secco sbrecciato è un’offesa all’opera del contadino che ha sudato per averne cura. Vito non commenta. E’ riservato, generoso, acuto, ironico, socievole. “Sei superstizioso, Vito?”. “No. Conosco alcune credenze popolari, perché le ho sentite dire quando ero bambino. Te ne dico una. Moltissimi anni fa alcuni miei parenti che da Alberobello venivano a Martina ‘cu ‘a sciarrètte’ videro u uomo vestito di nero appoggiare una mano sulla stanga; poi lo sconosciuto si trasformò in una palla, che gonfiandosi rotolò nel bosco. Come credere a queste assurdità?” Si diceva anche di uno che credendo la civetta messaggera di morte, la impallinò e la mise in padella. L’aurje, ‘u munacjdde sono favole che raccontavano una volta ai bambini.
Vito è un uomo saggio e ama il suo prossimo. Durante il giro mi ha raccontato che alcuni amici gli hanno chiesto di dare loro una mano per la vendemmia e subito lui e Angela li hanno aiutati a sgravare la vigna.
Ha l’aspetto di un buon parroco di campagna, ma non fa sermoni. Ama ascoltare. Parla, sì, ma quando è sollecitato. A 80 anni ha tanta fatica sulle spalle. Ancora oggi va sul trattore. Alle due figlie, Antonella e Cosimina, con l’aiuto di Angela, ha insegnato il rispetto e la noviltà del lavoro. Il suo motto. “ora et labora”. Ci fermiamo davanti alla chiesa di Sant’Irene e Vito lascia che io la contempli: piccola, la facciata semplice, grossi alberi intorno, un manifesto per i fedeli. Non saranno tanti: pochi ma buoni. Festeggiano la Santa con la preghiera e una processione. Per celebrare il compleanno della Madonna della Consolata fanno il corteo, ogni partecipante un grosso cero in mano, la Santa portata sulle spalle e sparano i fuochi d’artificio, con la musica e le bancarelle che vendono le nocelle e le arachidi . Vito faceva parte del comitato e a volte partecipava al tiro della fune.
Angela ha cura della chiesa, dove si respira aria di pulizia. Ci sono entrato e seduto su una panca ho guardato a lungo le statue di San Pio e di Cosma e Damiano, oltre a quella della Madonna, che sta su lato sinistro rispetto altare. Nelle serate della festa molta gente viene dalla città. Vi ho incontrato l’avvocato Martino Carbotti e il notaio Alfredo Aquaro, persona molto devota e generosa. Non c’è più. Per la sua perdita Martina ha pianto.
Facciamo il giro della piazza – larghissima e disadorna – dove troneggia la chiesa; e Vito dice: “Prima che venisse costruita questa chiesa, i padri missionari venivano nella zona per svolgere il loro apostolato. Allora la Messa era celebrata nelle case private: si faceva largo all’altare e si assisteva al rito. Nel 1958 fu monsignor Guglielmo Motolese, arcivescovo di Taranto, a benedire il nuovo piccolo tempio della Madonna della Consolata in fondo a via Papa Dpmenico.
Imbocchiamo un altro tratturo: un contadino è a bordo del trattore che rompe i timpani, smorzando il canto del gallo e il belato delle pecore, ma anche l’abbaio del cane. Sulla colonna di un cancello un gatto se ne sta quieto e sembra una scultura. Neppure qui cantano più le cicale né stridono i grilli né si vedono più le farfalle posarsi sui fiori. “Una volta raccoglievamo le lumache sulle festuche e sul finocchietto, di cui godevamo il profumo”, commenta Vito, che ha le giornate quasi sempre piene: accompagna Angela al mercato, partecipa, sempre con la moglie, ai compleanni, ai matrimoni, ai funerali. Angela e Vito Argese sono noti a mezza Martina. Anche a Lodi ho incontrato un poliziotto martinese che ha frequentato la stessa scuola di Antonella.
Quante cose apprendo in questo brevissimo viaggio per la campagna di Martina. “Vito come passi le serate invernali nella tua casa in paese, vicino alla chiesa di San Francesco?”. “Di fronte al camino abbiamo la televisione e quindi vediamo ‘I fatti vostri’ o qualche film. A volte viene una coppia di amici e facciamo partite allo scopone. In campagna vengo quasi ogni giorno per dare da mangiare ai gatti. Scappata e fuga”. E’ affezionato agli animali. Nella stalla dell’azienda agricola muggivano cinque o sei mucche e starnazzavano le galline e da qualche parte sbucavano le orecchie lunghe di un coniglio che Vito ogni tanto riusciva a prendere il braccio. Angela teneva le redini del piccolo complesso con rigore e passione.
Per scherzare dico che Angela è una marescialla dei carabinieri e mi chiedo come mai con il passare degli anni non sia stata promossa al grado superiore. Ha un bel sorriso comunicativo, che dimostra sincerità e fiducia, ma all’occorrenza le si accendono gli occhi dietro gli occhiali ed esprime una garbata severità. La stessa severità con cui ha allevato le figlie. E’ una donna d’altri tempi, di quelle in cui ci si scaldava con il braciere e i panni d’inverno si asciugavano stesi sus“’u mòneche”. Angela è ancora bella, a dispetto dell’età. Ma non ha le idee dei tempi che furono.
Quei tempi Vito li racconta pilotando l’auto su tratturi in salita, qui in terra battuta, lì asfaltati, più avanti in salita, poi in discesa, all’ombra di un bosco, fiancheggiando un meleto, una vigna prossima al parto. Io ricordo altre vendemmie, sul Chiancaro, nella terra dello zio prete. Con gli zii e i cugini tagliavamo i grappoli con il coltello, riempivamo un cesto, lo mettevamo sulle spalle e lo riversavamo nel palmento. Un contadino pensava a pestare l’uva con i piedi nudi. Erano giorni di gioia, anche se non facevamo la festa sull’aia (che tra l’altro non c’era), come tantissimi altri, con suoni e balli e bevute.
“Vito, questa è la mia unica esperienza, non contando quella a San Severo, nella mezza versura di mio zio Luigi, che finì quasi prima di cominciare per un taglio alla mano”. Vito sorride. Io tiro giù il finestrino per scattare una foto: la giornata va immortalata. Siamo nuovamente in contrada Papa Domenico, nota anche con il nome di Recchione da una masseria che sopravvive con tutta la sua vitalità. Ma Vito dirige l’auto verso il suo cortile. E lì ci aspetta l’ospitalità della famiglia. In casa Argese c’è sempre un piatto per gli amici. Angela ha già messo in tavola; su un tavolinetto a parte campeggia la policromia dei fichid’india e grappoli d’uva. Sono soddisfatto: ho trascorso ore con un uomo alto e robusto con il cuore ch ancora batte per la terra.