Di Franco Presicci:
La sera in cui festeggiammo, con una cerimonia molto partecipata, la consegna del Premio Milano di Giornalismo a Franco Di Bella, direttore del “Corriere della Sera”, e ad Alberto Cavallari, corrispondente da Parigi dello stesso quotidiano, mi meravigliò vedere entrare nel ristorante “La Porta Rossa” di via Vittor Pisani, di Chechele e Nennella, Giovanni Testori, giornalista e scrittore (“Il Fabbricone”…), che non andava quasi mai a questo tipo di serate. Si accomodò di fianco a Gino Palumbo, vincitore nell’anno precedente, e stette in silenzio. Fu una manifestazione ricca di sorprese, anche perché il grande pittore Mario Bardi, siciliano amante del Barocco, membro della giuria, si presentò con una tela da accompagnare al premio.
Chechele aveva invitato l’assessore Siro Brondoni, che era assediato dagli impegni, ma ne aveva scartato tre o quattro, pur di non mancare. Non era programmato un intervento di Palumbo, che tra l’altro aveva il merito di aver moltiplicato le vendite della “sua” “Gazzetta dello Sport”, ma, sollecitato dall’oste, accettò di prendere il microfono. Tra i presenti, la scrittrice Milena Milani e Ugo Ronfani, già corrispondete da Parigi del “Giorno”, critico di teatro e d’arte, cultura profonda, disponibile ad aiutare i talenti costretti a sonnecchiare (ricordo il suo bellissimo libro “La Toga Rossa”). Nei settori da lui praticati era un personaggio e un’autorità.
Quando comparve Gaetano Afeltra, grandissima esperienza nella confezione di un quotidiano e nella cattura delle notizie, allora direttore del “Giorno” e già vice del giornale di via Solferino e direttore del “Corriere d’Informazione”, tutti si alzarono in piedi. Amico di Indro Montanelli, di Enzo Biagi e di altri grandi anche del campo della sanità e dell’imprenditoria, era considerato quasi un mito. Giunto da Amalfi nel ‘39, prese alloggio in una pensione sul Naviglio, s’innamorò di Milano e scrisse libri sui ristoranti “Savini”, “Boeucc”, “Campari”, “Santa Rita”…, luoghi di incontri e d’affari tra i profumi dei piatti più gustosi, già frequentati delle personalità che occhieggiavano dalle pareti, da Totò a Eduardo, a Toscanini, alla Callas. Raccontò anche l’anno, il ‘29, in cui la pizza sbarcò a Milano, divorata nei primi tempi solo dai poliziotti meridionali della questura, che allora era in piazza San Fedele. Con la sua penna mai stanca ha descritto anche la Scala, la Galleria… Lo leggevano anche a Martina, per esempio Peppino Montanaro, che a suo tempo era stato assistente del sindaco Alberico Motolese, ancora oggi ricordato per le sue doti amministrative. A Peppino e a tantissimi altri piacevano i racconti in cui don Gaetano parlava del lettone della mamma. Quando a una serata compariva lui il tono si elevava.
Potevano mancare gli onori di un premio a Franco Di Bella, che da capocroonista del quotidiano di via Solferino era salito in plancia? Di Bella appariva contento, quella sera: non era poca cosa i voti ottenuti da una giuria autorevole, presieduta dal pittore Ibrahm Kodra, albanese che aveva attraversato mezza storia di Milano. Fra i giurati spiccavano Raffaele De Grada, critico d’arte e docente a Brera; Alberico Sala, critico d’arte e poeta; Sebastiano Grasso, anche lui investigatore d’arte, entrambi “corrieristi”; Mario Oriani, inventore del settimanale “Amica” e direttore di cinque riviste, da “Qui Touring” ad “Aqua”; i pittori Filippo Alto e Giuseppe Migneco; Mimmo Dabbrescia, di Barletta, grande “obiettivo” del “Corriere” prima di creare una rivista ed aprire una galleria d’arte in via Carlo Torre, ai margini del Naviglio Grande…
Tra i presenti anche Antonio Luca Di Bella, che proprio quella mattina aveva superato brillantemente a Roma l’esame di Stato diventando giornalista professionista. Per la cronaca, Antonio poi fece una carriera luminosa fino all’incarico di direttore di Raitrè e in seguito corrispondente da New York.
Che serate, quelle! La giuria era impegnata fino alle 2 di notte, tra polemiche accese e a volte fiammeggianti per arrivare al consenso finale. Chechele, seduto a un tavolo in un angolo della sala, faceva fatica a vincere il sonno. Lo affascinava la lunga discussione effervescente. E lo esaltavano poi tutti quei titoli sui giornali e su tutte le televisioni. I cronisti lo accerchiavano e lui si mostrava un po’ spaesato. In quel momento per lui erano lontani i tempi di Apricena, dove aveva cominciato a lavorare, confezionando un pane tondo e gobboso, come quello di San Severo, dove una volta un pezzo destinato a una mostra dell’artigianato si gonfiò tanto che si dovette allargare la bocca del forno per tirarlo fuori. Era famoso in tutta Milano, “il pugliese”, come lo definiva Afeltra. Famoso e orgoglioso del suo paese, caro a Federico II. “Quel Premio nato in cucina”, come titolò il “Giorno” un articolo di ricordi, si svolse negli ‘70 e si interruppe per rispetto alle vittime di uno dei disastri che hanno colpito l’Abruzzo. Non ce la sentimmo di distrarci da quella parte d’Italia che piangeva. Poi incomprensioni, discordanze, disarmonie nella giuria incrinarono l’entusiasmo.
Ma di quel gioiellino è rimasto per lungo tempo il ricordo. Non so se qualcuno ne abbia ancora memoria. Si sa, si fa presto a chiudere i battenti. Un giorno Francesco Lenoci, docente all’Università Cattolica del Sacro Cuore a Milano, mi telefonò con gioia dicendomi che aveva fotografato le vetrine del ristorante “La Porta Rossa”, tappezzata di giornali sul Premio Milano di Gornalismo. Un omaggio a Chechele, scomparso da tempo. E dopo di lui Nennella, Filippo Alto, Kodra, Alberico Sala, Afeltra, Ronfani, di cui restano i libri sul teatro francese, su monsignor Lefevre, Sartre, Rostand… Grande Ugo, battagliero e rispettoso del prossimo.
Kodra, già campione nel lancio del disco in Albania, ironico, colto e generoso, appena arrivato in Italia all’età di 18 anni, fu esortato a fare un discorso nella sua lingua e non conoscendo che una decina di parole della nostra, contò da 1 a 100, intervallando con duce, Mussolini, fascismo, riscuotendo valanghe di applausi. Era rimasto solo quando aveva una quindicina d’anni e il questore di Durazzo lo aveva presentato alla regima, moglie di re Zogu. Frequentò il quartiere di Brera ai tempi di Quasimodo, Confalonieri, Guttuso, Tadini… che si sedevano ai tavoli del Caffè Giamaica. Si dice che le pie sorelle Pirovini gli avevano proposto di saldare il suo conto chilometrico con la loro latteria convertendosi al Cristianesimo.
Paolo Mosca, allora direttore di “Play Boy” e di “Novella 2000”, si batteva come un leone nella difesa del nome che aveva messo in tavola la prima serata. Ma era simpatico e divertente. Di recente mi sono ritrovato fra le mani il suo libro “Il biondo”, con dedica. Fra i giurati tranquilli Migneco, Alto, Sala, Oriani. Giacovazzo votatava per telefono, essendo a Bari a pilotare la “Gazzetta”. Baldassare Molossi – direttore della “Gazzetta di Parma”, che tra l’altro con… la frusta (si fa per dire) aveva allevato un eminente giornalista, Giuseppe Barigazzi, passato al “Giorno” alle pagine degli spettacoli e autore di un importante volume sulle osterie milanesi – era il primo ad arrivare: lo rivedo con la sua borsa in mano entrare nella “Porta Rossa” e salutare con i suoi modi tranquilli, riservati, signorili.
Io e Filippo Alto, dopo avere stilato lo statuto, che non prevedere compensi per me, organizzatore e giurato, e per lui, mio consigliere, avevamo scelto meticolosamente i nomi da insediare nella giuria. Tutti famosi, come Edoardo Raspelli, severissimo critico gastronomico che piaceva a Luigi Veronelli, gastronomo a sua volta, etnologo, collaboratore del “Giorno”, apprezzato anche per lo stile quasi poetico della scrittura. Mi invitò a casa sua a Bergamo Alta anche per farmi visitare la sua cantina.
Eh, quanti ricordi. Se mi venisse in mente di raccoglierli in un libro, non saprei da dove cominciare. E poi ci vorrebbero mesi, anni, e di tempo me né rimasto poco. Ho un’amarezza: non essere riuscito a ricucire la tela strappata di quel Premio. Nè mi conforta averne steso un’altra: il Premio “Le porte di Milano”, dove in giuria brillava il nome di Domenico Porzio, giornalista, scrittore, assistente del presidente della Mondadori Arnoldo, nato a Taranto, dove a volte tornava per visitare i luoghi già da lui conosciuti della città vecchia, la libreria Mandese, via D’Aquino… Scrisse libri su Borges e “Primi Piani”, in cui descrisse Keruac, Raffaele Carrieri, Nabokov, Chiara, Sereni e tantissimi altre figure illustri. Era un gentiluomo elegante, coltissimo, frequentava Cortina e aveva il dono di porgere ascolto. Assistetti a un suo discorso su San Nicola al Circolo della Stampa e rimasi affascinato dalle parole e dal tono. Poi mi regalò il testo, che conservo. Era stata la prima personalità da me conosciuta a Milano, nel ‘63. Ero arrivato da poco tempo. Dopo di lui conobbi Le Noci, Buzzati, Nencini, titolare della prestigiosa Galleria Boccioni, visitata spesso da Marco Valsecchi, insigne critico d’arte del “Giorno”; Roberto De Monticelli, grande critico teatrale… Non so quando chiuderò le pagine della mia vita, ma quando sarà il mio turno non sarò troppo soddisfatto di quello che ho fatto.






