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Addio all’interprete di Tadzio È morto Björn Andresen

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Björn Andresen è morto.
È stato un volto che il tempo ha amato e maledetto.
Aveva solo quindici anni quando Luchino Visconti lo scelse per Morte a Venezia: un ragazzo svedese, silenzioso e fragile, trascinato nell’abisso di un film destinato a diventare leggenda. Lo chiamarono “il ragazzo più bello del XX secolo”. Ma quella frase, più che un complimento, fu una condanna.

Il suo Tadzio – corpo e fantasma di un desiderio irraggiungibile – rimase impresso nella memoria collettiva come un mito pagano. Quel sorriso sul Lido, quel passo leggero sulla sabbia, erano già icone prima ancora che lui potesse comprenderne il peso. Da allora, Björn non fu più soltanto una persona: divenne un’immagine, un’idea, un riflesso di perfezione.

Visconti lo offrì al mondo come un trofeo di bellezza, e il mondo non smise più di fissarlo. Björn, invece, avrebbe voluto scomparire. Cercò rifugio nella musica, nella lontananza, nel Giappone. Scrisse canzoni come per coprire il frastuono degli sguardi che lo inseguivano. Lì, in quell’altrove, trovò un’altra forma di esistenza: il suo volto ispirò Riyoko Ikeda nella creazione di Lady Oscar, un nuovo mito, un’altra gabbia dorata.

La sua vita fu l’ombra lunga proiettata da quella prima, accecante luce. La depressione, la solitudine, pochi film, e poi il ritorno inatteso in Midsommar di Ari Aster: un’apparizione spettrale, il corpo ridotto a ossa e memoria, come se il tempo avesse finalmente vinto la sua battaglia contro la grazia. Un’apparizione che sa di resa, ma anche di liberazione.

“Mi sentivo come un animale esotico in gabbia”, disse una volta.
Forse tutta la sua vita è stata un lento tentativo di aprire quella gabbia e tornare a respirare.

Björn Andresen è morto a settant’anni.
Ma Tadzio continuerà a camminare verso il mare, nella luce sospesa di un pomeriggio eterno, dove nessun tempo e nessuna ombra potranno mai raggiungerlo. (Giovanni Fumarola)

(foto: tratta da profilo di Anton Giulio Onofri) 


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