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Taranto: il tram Ricordi

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Di Franco Presicci:

Sarà l’età avanzata, carica di nostalgie, sarà un amore profondo per la mia città, certo è che ho una gran voglia di raccontare i tempi di una volta, quando circolavano i tram e le carrozze: avevano il capolinea a Solito, a un tiro di fionda dallo stadio Corvisea, e alla stazione. In via Di Palma, subito dopo piazza Maria Immacolata, di fronte al cinema Odeon, poi scomparso, c’erano i bimari di scambio: il veicolo diretto a Solito sostava su quello di destra, in attesa dell’altro, che andava allo scalo ferroviario. I ragazzi non avevano il denaro per l biglietto e viaggiavano sul predellino. Alla vista del controllore, con un saltino il clandestino abbandonava la postazione. Se il tram viaggiava affollato, il predellino rimaneva occupato. A volte lo facevano per divertimento.
Le carrozze fungevano da taxi e chi non aveva voglia di scarpinare si piazzava sull’asse posteriore. Ma c’era sempre “’u cascettòne”, la spia, che cantilenava: “Alè, alè, alè, ‘u uagnòne stè’ rète”, e il conducente faceva schioccare la frusta. Devo dire la verità: l’ho fatto anch’io, uscendo dal Collegio Manzoni, in corso Umberto, sull’agenzia viaggi Ausiello, chiusa anche quella, e di fronte all’Istituto Magistrale Livio Andronico.
Quando ero ragazzino, a Taranto c’erano gli americani e chi voleva guadagnarsi le chewingum, doveva indicare i punti-vendita del vino oppure l’indirizzo delle signore che ricevevano in casa. Il “marine” fermava una carrozza, saliva con l’informatore, e se non era la “gomma”, come premio, era la sigaretta. Al Collegio, il cui direttore era severo, un uomo prestante con occhiali alla Cavour, un ottimo insegnante soprattutto di latino, qualche allievo, molto segretamente, faceva commercio di “zippre dòce”, la radice di liquirizia; il solito prepotente un pomeriggio ne pretese gratuitamente due pezzetti, ricattando: “Se rifiuti, vado a riferire”. L’altro accettò la sfida e la minaccia si concretizzò, ma nel frattempo il “mercante” aveva nascosto ciò che rimaneva del malloppo nelle scarpe. Figurarsi con il caldo d’agosto in che stato erano i piedi.
Dalla cattedra il “prof” aveva già notato una continua masticazione generale e non aveva certo pensato a un “tic” improvviso, quindi si avvicinò al colpevole e gli chiese la consegna della… merce. Quello giurò di essere innocente, e il giorno dopo, per punizione, rimase senza pranzo.
Dopo molti anni tornai al Collegio per salutare e ringraziare; mi avvicinai alla cattedra, ma non fui riconosciuto. Avevo appreso tanto, in quell’aula!
Sono uno di quelli che alle elementari ha sudato sulle aste: venivano assegnate anche per castigo. Una volta mia mamma, per darmi una lezione, mi fece riempire quasi un quaderno di quelle lineette inclinate. A 16 anni avevo guadagnato un piccolo spazio di libertà; e me ne servivo per andare alla chiesa di San Domenico, non percorrendo via Duomo, ma la Ringhiera, che abbandonavo all’altezza delle scuole. A volte dal pendio scendevo fino alla Dogana, dove iniziava la fila di banchi a scale con tanti piatti copputi pieni di cozze (l’oro di Taranto), ostriche, capesante, cozze pelose… poche lire per un chilo. Ne mangiava anche il professor Piero Mandrillo, che da Pulsano si era trasferito da anni, ancora giovane, nella Bimare. Coltissimo, scriveva libri e articoli per “Il Corriere del Giorno”. Mai noioso, sempre interessante: uno stile scorrevole e allettante. Era amico del dottor Giuseppe Barbalucca, un pediatra con la passione per la macchina da scrivere. Insieme fondarono un periodico di piccolissime dimensioni, che ebbe una vita breve. Io li seguivo entrambi, anche se ero molto più giovane di loro. Soprattutto Piero, prodigo di consigli. Barbalucca fu reclutato come capocronista al quotidiano di Taranto.
Quando mi trasferii, conquistando, dopo una lunga gavetta, la redazione de “Il Giorno”, Piero andava a Monza a trovare la figlia; quindi veniva nel capoluogo lombardo per intervistare i personaggi più in vista: Giuliano Gramigna (che si sbarbava in via Morone, nel salone di Franco Bompieri, tonsore e scrittore, che tagliava i capelli a Montanelli, Tronchetti Provera, Cesare Romiti, Enzo Jannacci, Eugenio Montale, Enriico Cuccia, Raffaele Carrieri, che abitava in via Borgonuovo; e fece anche la barba a Totò.
Quando Piero intervistò Gramigna la situazione si capovolse: l’intervistato si accorse che l’intervistatore conosceva perfettamente l’inglese e lo inondò di domande, perché quella lingua non l’aveva mai praticata. Da Gramigna lo avevo accompagnato io e Piero nell’articolo scrisse che ero il suo “psicopompo”. Piero poteva parlare di tutto, di massoneria e di arte contemporanea, della Roma dei Cesari e di Hegel. Poi cominciò a trasmettere Tivù Taranto e diventò l’architrave culturale dell’antenna. In seguito fu invitato a Wellington per insegnare l’italiano all’Università e anche lì venne acclamato. Conservo un suo studio sul Carducci, sopravvissuto a traslochi e donazioni a questa e a quella biblioteca da istituire. Un giorno, a pranzo da me, mi disse che aveva in mente di esaminare l’etimologia della parola dialettale tarantina “chiudde”, che secondo il vocabolario di Gigante vuol dire pescatore rozzo e ignorante, di altri tempi. Oggi i pescatori hanno le labbra screpolate, ma sono persone civili e socievoli. Tanto di cappello, anche per il pesce che procurano alle nostre tavole. Insomma, Mandrillo esplorò anche il nostro dialetto. A Pulsano gli hanno dedicato la biblioteca. Lui non è stato solo un “patriae decus”.
Il mio pensiero va spesso a Giacinto Peluso e ai suoi volumi, in cui ha raccontato la città, le tradizioni, la storia, figure straordinarie; a Nicola Caputo, che ha spiegato come pochi non soltanto la Settimana Santa; a Domenico Porzio, tarantino che fu capo ufficio stampa della Mondadori e assistente del presidente Arnoldo, oltre che giornalista e scrittore, profondo conoscitore di Borges. Non dimenticò mai la nativa Taranto, dove tornava per rivisitare la città vecchia, via D’Aquino, la libreria Mandese… Nel ‘76, in una memorabile serata pugliese a Milano, in via Brera, al Cida (Centro informazioni d’arte) gli cedettero il microfono e lui parlò di Taranto, da cui era tornato da poco, con toni toccanti. Ad applaudirlo c’era anche il grande martinese Guido Le Noci, titolare della Galleria “Apollinaire” – aperta nella stessa storica via, amico di Pierre Restany, padre dell’”art nouveau” – e sostenitore in Europa dell’arte d’avanguardia. I tarantini si sono imposti anche a Milano, come altri pugliesi.
Allargo lo sguardo e rivedo le arene di Taranto, attive negli anni ‘50 (Corallo, Italia, Monacelli, Arsenale, Artiglieria…) e gli stabilimenti balneari: a Taranto vecchia Cincinnati; nel borgo nuovo, a lungomare, Elena, Nettuno, Lido Taranto; sulla via per San Vito, Praia a mare, Lido Bruno; in viale Virgilio Santa Lucia, dove si bagnavano prevalentemente gli arsenalotti. Ricordo la rotonda e l’omonima canzone di Fred Buongusto.
Al Santa Lucia all’età di 5 anni i miei mi ci portavano, sorvegliandomi mentre giocavo sulla battigia. Adesso quando torno a Taranto quello stabilimento non lo trovo più. Se mi va bene, mi riappare sulle cartoline d’epoca delle collezioni di Antonio De Florio e di Nicola Giudetti. La città ha mutato faccia: viale Magna Grecia portava il nome di Venezia ed era una grande distesa di verde con una sola costruzione: una clinica; il quartiere della Salinella, dove in tempi più recenti si svolgeva il mercatino delle pulci, poi smantellato, era per me un intrico di strade sconosciute. In viale Virgilio, all’altezza dei Salesiani, si prendeva un sentiero a destra e si raggiungeva la scogliera, dove si catturavano i granchi. Oggi quel sentiero è seppellito sotto il cemento armato.
Nella città vecchia, per dirne un’altra. hanno restaurato piazza Fontana (mi ricorda “’U relògge d’a chiazze di Diego Marturano), per opera dello scultore Nicola Carrino. Ai miei tempi nella vicina Dogana si vendevano il pesce e i frutti di mare, adesso lo spazio è vuoto. Una volta si potevano mettere i piedi nel Mar Piccolo, “’u Mare Peccerìdde”, e ora… non discuto l’utilità e la bellezza degli interventi, per carità.
Parlo degli anni in cui in via D’Aquino si poteva andare in auto e in bicicletta. Nella via parallela alla mia, via Giusti, alle Tre Carrare, abitava Umberto Vernaglione, campione italiano di boxe, che combattè con Garbelli per la conquista del titolo europeo, sul ring allestito (se non ricordo male) sotto il tendone del circo Togni, innalzato nel borgo antico. In via Dalò Alfieri tra le vie Nettuno e Giusti, era alloggiato l’ufficio dei vigili urbani. Erano i tempi della guardia Fumarola, famosa per la sua intransigenza.
Nella mia parrocchia, il Sacro Cuore di Gesù, ingresso da via Giovan Giovine, veniva Mario Mazzarino, futuro ministro delle Finanze. Tra i sacerdoti più in vista, don Musto e don Giancola, don Pietro Saracino, che odiava le trattative per funerali e matrimoni e litigava. Le tonache abitavano nello stabile di fronte alla sacrestia, le cui finestre si affacciavano in via Nettuno, dove due signore, alle 5 del pomeriggio, si piazzavano sul balcone e affibbiavano soprannomi ai passanti. Segaròne, cap’a ‘na coste, menza meròdde, becch’e mmùse, ‘a sciammèreche, ‘a condèsse, e capitava di vedere donne che camminando sbocconcellavano il panino…”Hanno solo quello”, commentava mia nonna.
Ricordo Pepino, che in un secondo faceva divisioni, sottrazioni, moltiplicazioni, operazioni algebriche… e rischiava di essere abbattuto da ‘na iatàte de vìende”. Quando si apriva il ponte girevole, dalle folle in attesa dell’una e dell’altra parte, i ragazzi schizzavano quando l’abbraccio si richiudeva, impegnandosi in una corsa scombinata. Un mondo che non c’è più e soltanto la nostalgia può far dire che era meglio di oggi.


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