Di Franco Presicci:
Entrò nel salone della cronaca del “Giorno”, al terzo piano di piazza Cavour, con il passo da bersagliere. Senza rivolgere lo sguardo verso gli altri colleghi occupati con i computer. Si stagliò di fonte alla mia scrivania con l’atteggiamento dell’inquisitore durante un interrogatorio e parlò. “Mi chiamo Raffaele Iannuzzi, sono di Molfetta, ho 87 anni e partecipo attivamente alla Stramilano. L’ho vista, lei, sul palco delle autorità quando era madrina Isabella Rossellini e la sua faccia da Gianni Minà mi ha dato fiducia”. Divertito, telefonai al fotografo (avevano il laboratorio al decimo piano) e si presentò Lorenzo Pizzamiglio con il suo aggeggio fra le mani. Prima che facesse lo scatto chiesi al maratoneta la carta d’identità per vedere se andasse bene quella foto, ma in verità volevo accertare la sua data di nascita.
Era stato sincero. E allora cominciai a bombardarlo di domande. Lui sicuro, deciso, serio, mi spezzettò la sua biografia. Era pensionato, aveva lavorato all’ufficio centrale delle Poste, in via Ferrante Aporti, quasi di fronte alla stazione Centrale, dov’era noto come Speedy Gonzales, perché anche nel suo lavoro era un’aquila. “In un’ora trattavo il triplo della corrispondenza degli altri”. Lo disse tranquillamente, senza assumere l’atteggiamento del primo della classe. “Si diffuse il sospetto che per la mania di strafare lavorassi alla carlona. Lo pensavano anche i miei superiori. Allora fecero venire degli ispettori che controllarono i risultati e appurarono la mia lealtà”. Raccontava con cadenze dialettali, “orgoglioso di essere terrone”, termine che i milanesi usano di rado. Abitava in una traversa di viale Zara, in una palazzina che apparteneva alle stesse Poste.
Era un personaggio interessante e simpatico. La Stramilano, che al suo battesimo non partiva da piazza Duomo, ma proprio da viale Zara, era nata con pochi appassionati. Iannuzzi, che all’epoca c’era, le farà tutte. E si allenava ogni giorno, andando da Milano a Monza e ritorno a piedi. Dopo il nostro incontro la Stramilano era già quasi sul piede di partenza; e il giorno fatidico, il mese successivo, lo cercai dal palco fra i cinquantamila che portavano il pettorale come scudo e lui al suo passaggio, mi salutò urlando, per attestare la sua presenza.
Era disciplinato e prudente: non si posizionava mai in prima fila, quella che rompeva lo sbarramento sempre un quarto d’ora prima dell’orario stabilito, travolgendo gli addetti alla sicurezza: insofferenti giovani ansiosi d’impadronirsi della città. Poi io, a bordo dell’auto del giornale guidata dall’autista, andavo ad appostarmi al punto di ristoro in viale Tibaldi, sulla circonvallazione, e da lì rivedevo transitare l’ottantenne con il cappello di alpino in testa; l’uomo calato in una tunica variopinta, il fez rosso sul capo e una scimmietta sulle spalle; una specie di pertica avvolto nella bandiera; uno spericolato in sella a un velocipede un po’ malandato; un pittore estemporaneo, che dipingeva correndo; famiglie che spingevano la carrozzina con il bambino che strillava; un vecchietto in barracano che impugnava un flauto a riposo; un trampoliere suonatore di banjo; il giovanotto sui pattini, un altro alla guida di una cariola con un amico acculato dentro; il vicequestore della squadra mobile con il figlio a cavalcioni… Potrei continuare.
Un trionfo anche di colori fra tanti tipi estrosi e buontemponi, tutti con quei pettorali originali, un anno disegnato da Missoni. Verso le 13, e anche prima, quella fila lunga chilometri si riversava all’Arena (dove nel 1891 si esibì il circo di Buffalo Bill con 600 elementi tra uomini, compresi cow boys, apaches e sioux, e animali) e vedevo concorrenti sdraiarsi sull’erba per smaltire la fatica o per prendere il sole in faccia. Ed ecco Raffaele Iannuzzi con passi più lenti rimanere in piedi, per fare onore alla sua età. Molti concorrenti avevano rinunciato a proseguire, assottigliando la densità della marcia. e altri avevano bluffato, accorciando il percorso.
La Stramilano crea emozioni, entusiasmo, coinvolge. Qualcuno non mi crederà, ma lo dico lo steso: avevo telefonato a casa di un patito della marcia che stava per compiere 100 anni, e aveva risposto la moglie pregandomi di fare di tutto per trattenere il marito, che fremeva, spasimava, perchè da quattro anni gli veniva impedito d’immergersi in quella marea fluttuante per ragioni di salute. La Stramilano trascina, rapisce, calamita. Intervistando decine di marciatori, seguendo il loro passo per un tratto, appresi che venivano da ogni parte d’Italia, da Taranto, da Reggio Emilia, da Bolzano, da Mantova, dalla Svizzera. Certo gli automobilisti s’infuriavano, e i più intolleranti passavano quando il corteo si sfrangiava. Ma tutto sommato era una gioia vedere quella folla policroma sgambare per le vie della città cantando, facendo piroette, saltando, suonando.
Colsi un tale di novantanni in pantaloncini e canotta, che avanzava sorridendo e salutando, allargando le braccia come fa il Papa dal famoso balcone. Una festa, una baldoria. Una piccola orchestra suonava brani meneghini esortando a ballare. Un gruppo di tangheri improvvisati faceva il “casquè”.
Ho tanta nostalgia della Stramilano. Che è allegria, sport, voglia di trascorrere una giornata diversa, gioia di scarpinare liberi in una città che una volta all’anno si offre ai pedoni tenendo ai margini le cilindrate. Quanti ricordi riversa la memoria, se stuzzicata. Le rivedo quasi tutte le figure che facevano baldoria in quella giornata, in cui è lecito vestirsi anche da Pulcinella o con la capigliatura di Gaetano Pappagone, il personaggio di Peppino De Filippo (“Ecque qua”). Ricordo tanti simpatici stravaganti. E ricordo Samuele Iannuzzi, che se non se ne fosse andato all’altro mondo avrebbe marciato fino a 90 anni, come Antonio P. a Roma. Conservo una coppa vinta da lui e donata a me per ringraziarmi delle attenzioni che gli avevo dedicato.
Una mattina Samuele mi telefonò corrucciato: era stato al giornale a chiedere di me e una collega, saputo il motivo, rispose che la sua partecipazione alla Stramilano non interessava. Io ero in pensione, chiamai il capocronista, l’indimenticabile Giulio Giuzzi, bravissimo collega, che per qualche anno era stato sindaco della sua Belgioioso, e mi affidò l’incarico di intervistare ancora una volta il molfettese meneghino. Ma avevo bisogno di notizie fresche, e corsi a casa sua, alle 21. Bussai ripetutamente, investito dalla voce della televisione ad alto volume. Mi rivolsi al portinaio e feci una buona mietitura. Mi disse, per esempio, che Iannuzzi si alzava alle 5, faceva le sue faccende, alle 6 metteva la caffettiera sul fornello, con la fiammella bassa, correva al giornalaio per comperare il quotidiano e rientrava imitando Alberto Cova, in tempo per trovare già pronto il caffè.
Lo conoscevano tutti, da Michele Mesto, oggi presidente e pilota della Stramilano, da 52 anni nell’organizzazione, barese che sa tenere sempre la barra dritta, ad Attilio Monetti, lo “speaker”, che presentando la manifestazione dal palco spifferava nomi di campioni, date di vittorie, gare, luoghi in cui si erano svolte, record, tutto a memoria. Una sorta di Lello Bersani. E intanto la gente si aggrumava, una fila lunga dal Duomo a piazza Cordusio e oltre, senza contare gli spettatori chiusi dietro le transenne sui marciapiedi.
La piazza cominciava ad animarsi molto presto: i concorrenti arrivavano alla spicciolata o a gruppi, giovani e anziani, prima delle 7, già con i pettorali in bella mostra. Samuele Iannuzzi compariva alle 8, a piedi, faceva quattro chiacchiere con qualche altro maratoneta e aspettava il momento della partenza verso piazza San Babila. Poi il fiume prendeva a scorrere, prima lento, poi veloce, mentre gl sfrenati avevano già rinvaso corso Buenos Ayres come una valanga.
Un giorno, ero in campagna a Martina Franca, mi telefonò il collega amico Piero Lotito, il cui libro “Di freccia e di gelo” è uscito con Mondadori, e mi chiese l’indirizzo di don Samuele, come lo chiamavo io, aggiungendo che aveva notato frammenti di un manifesto funebre sventolare per il vento sulla facciata di uno stabile, con quel nome. Oddio! Samuele se m’era andato. L’articolo lo avrei voluto scrivere io, ma non volli mancare di riguardo al collega, che, ancora in servizio, produsse un “coccodrillo” (come si dice nel nostro gergo) davvero toccante.
La Stramilano ha continuato il suo cammino, e a me è rimasto seguirla sulla carta stampata e sul piccolo schermo. Come si fa a dimenticare tutta quella marea che si allarga, si restringe, si sparpaglia, si ricuce. Alcuni frenano, altri accelerano. Quelli in bici tranciano i gruppi, gli altri con i pattini volano, saettano, divorano la via. Questa giornata è pazza di gioia. Al posto di ristoro e all’Arena s’intrecciano i dialetti; all’Arena si distribuiscono medaglie e attestati; mentre i maratoneti continuano a confluirvi. Passano im minuti e ’Arena s’impolpa, i giornalisti raccolgono storie, commenti, coppie di fidanzati si baciano, sorvolati da un improvviso volo di colombi, nel cielo limpido passa una mongolfiera. Si fanno le 15, i concorrenti si sono già ristorati in viale Tibaldi: latte, “yogurt”, caffè, “brioches”, panini, mele, bibite. Ne è arrivata di roba. Un’idea? La Valtellina ha spedito 60 mila mele, e forse più, da altre parti altrettante quantità di alimenti. I fotografi sono già nei laboratori a stampare le foto per i giornali. I grafici prepararano i manabò. Si urla Viva la Stramilano”. Viva.