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Quando a Martina Franca si giocavano al lotto i numeri delle lancette dell’orologio in piazza fermo da anni Ricordi

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Di Franco Presicci:

Nel botteghino del lotto si riversa la speranza di cambiare la vita. Un terno secco, sì, che la cambierebbe. Cercano di combinarlo non soltanto i poveri. Anni fa, al Teatro Manzoni di Milano, intervistai un grande e simpatico attore napoletano che vi stava recitando “Non ti pago”, di Eduardo De Filippo. Gli chiesi del gioco nella sua città, dei cosiddetti assistiti, che danno i numeri in cambio di un caffè (ne parla De Crescenzo nel suo libro “Così parlò Bellavista”), della superstizione e se ne fosse avvinto anche lui. Rispose con grande cortesia e sincerità. Per essere più chiaro, tirò fuori il portafoglio e mi mostrò la foto del padre accanto al biglietto del lotto. “Ecco, spero che questa vicinanza mi porti fortuna”.

Screenshot 20250907 061458Il malocchio domina la ricevitoria. Parlai con tanti titolari, anche del Sud (Taranto, Locorotondo, Martina Franca, Pisticci…), perché volevo dare un respiro nazionale alla pagina che “Il Giorno” mi aveva riservato quando andai in pensione. Ovunque mietevo chicche, incontravo personaggi particolari, che comunicavano i numeri a chi stava oltre lo sportello con una voce così bassa che non mi spiegavo come il destinatario riuscisse a percepirli: le combinazioni sono segrete, perché il vicino può contaminarli.
Anche a Milano c’era chi prima di giocare scrutava l’interno, e se notava un elemento sospetto, spargeva pugni di sale sul mattone che quello aveva calpestato. Qualcuno il sale lo “seminava” comunque ai quattro angoli della stanza e al proprietario toccava spazzarlo prima della chiusura.
Ero curioso e facevo un mucchio di domande, soprattutto al gestore di una ricevitoria, che mi apparve subito disponibile in un momento in cui il locale era vuoto. “Ho un cliente assiduo… magari se aspetta un po’ lo vede arrivare: ha l’ufficio pieno di oggetti apotropaici; dalle corna sparse nei cassetti ai ferri di cavallo e corone di aglio pendenti dagli archi delle porte. Se non gli piace lo sguardo di un giocatore, anche se così tanto ‘protetto’, esce”.
Il mio uomo non venne, ma al suo posto arrivò la figlia; il ricevitore mi presentò e lei, dopo aver giocato, mi accompagnò dal padre, che lavorava a un tiro di fionda. La ragazza mi salutò sulla soglia, io bussai, mi fu aperto e mi trovai in una stanza con tutti quegli oggetti predisposti per la … salvezza dal malocchio.
Ero a Milano e mi sembrava di essere ai tempi lontani delle credenze popolari. In un’altra ricevitoria del capoluogo lombardo conobbi un ottantenne che conosceva la Smorfia a memoria. E tra l’altro mi indicò il motivo per cui gli occhiali fanno 8: hanno la stessa forma del numero. Gli piaceva illustrare l’origine dell’accoppiamento dei numeri con le cose. Ma ebbe qualche incertezza quando la mia curiosità lo coinvolse nel metivo per cui il mziale fa 4. Quando poi mi raccontò che una notte si era imbattuto nel diavolo e gli aveva parlato con tono duro continuai ad ascoltarlo solo per educazione. Era il periodo in cui il maiale, cioè il 4, a Genova non grugniva da mesi e molti giocatori si dissanguarono. Si diceva di una contessa che aveva puntato un paio di milioni e di un barbone che in diversi botteghini aveva prosciugato i suoi risparmi custoditi sotto il materasso.
Incontravo ricevitori che si rifiutavano di parlare della loro attività. Uno mi disse che non poteva assolutamente rivelare i segreti che gli venivano affidati. “Anche se non mi parlano apertamente, dai numeri capisco che cosa è in gioco. Alcuni giocatori entrano quando non c’è nessuno e mi chiedono di smorfiare situazioni delicate, intime”.
Ma quei segreti me li spiattellavano altri suoi colleghi. In un paese delle nostre parti interpellai una ricevitora ottantenne, e intuii che aveva un segreto che, per pudore, era restia a confidare: un sogno fatto da una bellissima donna bionda che vedeva per la prima volta: si trattava di un intreccio d’amore con un amico e desiderava che le fosse smorfiato. Vinse 60 milioni ed ebbe l’imprudenza di riferirlo al compagno d’alcova. Risultato: quello pretendeva la metà della vincita.
Molte storie le appresi dal proprietario di una ricevitoria milanese, gestita da un napoletano, che di esperienze oniriche altrui aveva piena la memoria: la vedova che in un momento di estasi si era concessa all’idraulico, un giovanotto irresistibile; un’altra al tecnico della lavatrice; e un’altra ancora, inconsolabile, che, incalzata dal marito ogni notte, cedeva per amore eterno (non sapevo che i defunti continuassero ad avere certi pruriti).
Allora i rapporti con i morti si giocavano sulla ruota di Bari, oggi non so: sono passati molti anni da quelle mie frequentazioni. Dovevo occuparmi del lotto dal punto di vista demologico e mi divertivo a conoscere luoghi, persone, usi. M’informavo anche leggendo. Un amico, che dirigeva una libreria, mi procurò un volume derivante da una tesi di laurea e lì approfondii la conoscenza degli assistiti o polacchi, che si aggiravano attorno ai botteghini. Luciano De Crescenzo ne descrive uno in modo divertente: accusano l’assistito di aver preso un abbaglio e lui restituisce, sostenendo che i giocatori hanno travisato il suo racconto…
Quando entravo in una ricevitoria ogni tanto mi capitava di pensare al “Ventre di Napoli” di Matilde Serao, che avevo letto e riletto anni prima. E avevo anche leggiucchiato altre pagine. Sapevo che il gioco del lotto era nato a Napoli e non a Genova, dove ad inventarlo era stato un barbiere, come affermano gli studiosi della materia. Comunque a Napoli ebbe la sua massima diffusione, che dura ancora adesso. Una volta, credo ai primi del ‘900, anche a Taranto si chiamava “’a bonaficiate”, perché parte dell’incasso era destinato a fanciulle in età da marito.
Ho svolto questo lavoro per qualche anno, scoprendo che molti appassionati del lotto giocano le targhe delle auto, i numeri civici, le disgrazie, gli avvenimenti importanti, la morte di un capo di Stato, i matrimoni, la ricomparsa di una persona che non si vedeva da tanto tempo… Per un lasso di tempo l’orologio che sta sulla torre di fianco alla Basilica di San Martino, in Valle d’Itria, non funzionò e molti trasferirono al botteghino l’ora che le lancette immobili segnavano.
Ho avuto occasione di incontrare l’”aurie” e “’u munacijdde” proprio in una ricevitoria. Domandai se in questo centro si credesse ancora in questi folletti e il titolare s’infuriò: “’U munacijdde’? Proprio io ne ho la prova. Mia zia aveva acquistato una giumenta e la notte quel birichino le intrecciò la coda e la criniera. E lei mi viene a chiedere se crediamo. Certo che crediamo!”. Mi ricordai di Giovanni, un vecchio contadino martinese che una sera mi parlò del mago della pioggia. “Quando l’acqua non scendeva e i campi erano assetati, il mago indossava un mantello e un cappello come quello dei briganti, saliva sui trulli e invocava il cielo con parole che nessuno conosceva. L’aurie mia madre lo ha visto mentre sventolava la mano seminascosto dietro l‘armadio”. Ma erano narrazioni fatte da un vecchio a un dodicenne circa ottant’anni or sono.
Un ricevitore di Milano, il primo che ascoltai in questo mio percorso di misteri, segreti, sogni, oggetti contro la jettatura, compresi i cornetti rossi che gonfiano le tasche di chi ci crede, ho appreso anche che più si perde e più si gioca, nel tentativo di rifarsi, e che al botteghino non si affacciano soltanto i poveri. Povera era quella donna bassa e minuta che pregò il ricevitore di smorfiarle il suo unico viaggio, a Torino, “c’u tràpene”. “Con il trapano? E che cosa doveva fare con quell’attrezzo?”, domandò l’interlocutore occhialuto. “Accussì se chiàme ‘u trène”. Anche chi storpia la lingua italiana ha il diritto di giocare e scherzarci su è offensivo.
Anni fa cercavo un libro sul lotto a Taranto e invece trovai sul tram un personaggio che sulla città aveva scritto tanti libri: il professor Giacinto Peluso. Ero su un tram diretto a Solito, durante le vacanze estive, quando mi sentii chiamare con un tono imperioso; e sbirciai una testa tonda e pelata che tentava di emergere dalla folla. Mi avvicinai. Era Giacinto, ma lo riconobbi solo quando mi chiese se lo leggevo sul “Corriere del Giorno”. Che gioia, mi venne voglia di abbracciarlo, ma eravamo incapsulati. Scendemmo al capolinea e gli chiesi se avesse scritto qualcosa sul lotto della nostra città. Certo che lo aveva fatto! M’invitò a casa e mi dette in prestito l’unica copia di una sua opera che gli era rimasta. E lì trovai tante notizie: la ricevitoria della città vecchia; i ragazzi che appena uscivano i numeri li ricevevano su foglietti che diffondevano in tutta la città, urlando; e altro. Caro Giacinto, si è occupato anche di questo, raccontando la nostra città in tutti i suoi aspetti.

(foto: non strettamente connesse alla notizia, tratte da Taranto com’era)

 

 

 

 

 

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