Di Franco Presicci:
Ricordo la sera in cui Gaetano Afeltra, allora direttore del “Giorno”, incontrando un cronista nel corridoio che portava al bar, gli disse che nelle sue cronache doveva essere più sobrio. Non gli era piaciuta la descrizione di un uomo che, sorpreso dalla polizia in stato adamitico in una casa di appuntamenti di lusso, aveva abbainato la bandiera. Ma non era un bigotto: pretendeva che sul giornale si usasse un linguaggio più consono. Non non era la prima volta che il colpevole impiegava espressioni, come dire?, piccanti. Don Gaetano, come alcuni lo chiamavano per simpatia, amalfitano innamorato di Milano, soprattutto dei navigli, sguardo penetrante, andatura lenta, grande, prestigiosa figura del giornalismo, leggeva ogni riga del giornale.

Afeltra era un uomo curioso. Un giorno vicino alla baracca di libri usati, in piazza Cavour, stavo conversando con Ernesto Calindri, che recitava nel teatro di piazza San Babila, quando salutando l’attore lo vidi mentre osservava alcuni titoli. Quando rimasi solo mi chiese come trascorressi le mie giornate. “Scrivo ancora sul ‘Giorno’, dove mi hanno fatto un contratto di collaborazione”. “E le basta?”. “Me lo faccio bastare”. Un’altra volta era in compagnia di Lucia Annunziata sull’ampio marciapiede dello slargo da cui partono i giardini pubblici, va Manzoni, via Fatebenefratelli.
Quando l’editore Nicola Partipilo stava preparando il grosso volume sui navigli, mi pregò d’invitare don Gaetano a mettere giù qualche suo ricordo. Acconsentì subito. Non perdeva occasione per dipingere la terra del Porta in ogni aspetto: i corsi d’acqua amati anche da Alfonso Gatto; i ristoranti della Galleria Vittorio Emanuele; il ”Santa Rita”, dove nel ‘29 sbarcò la pizza, che in principio venne guardata con sospetto dai meneghini, ma adorata dai poliziotti meridionali, reclutati dalla questura, che allora era insediata in piazza San Fedele.
Gli scritti di don Gaetano contenevano sempre delle chicche. Era tenace e diplomatico. Una sera la prima pagina era governata da Giovanni Raimondi, uno dei vicedirettori, essendo Afeltra impegnato altrove. Quando rientrò, si avviò in tipografia e sbottò: “Non mi piace, questa prima non mi piace, domani ride tutto il ‘Corriere’: “Io dico di no”, rispose risentito Raimondi. “Allora rido solo io”, incalzò il direttore, facendo dietro front. Via Solferino, dove era stato direttore del “Corsera” e poi direttore del “Corriere d’Informazioni”, gli era rimasto nel cuore (“Corriere primo amore”).
Raimondi, come Alberico Sala, che era anche poeta; Giuliano Gramigna, grandissimo critico letterario, e altri, da via Solferino avevano seguito Afeltra in via Fava, dove giganteggiava l’edificio del “Giorno”, demolito da qualche anno. E aveva indotto a collaborare anche Mario Soldati e altre firme illustri. “Il Giorno“ già aveva o aveva avuto nomi eccellenti, come Gianfranco Fusco, Pilade Del Buono, Maurizio Chierici, Roberto De Monticelli, Marco Valsecchi, Pietro Bianchi, Romeo Giovannini, che faceva titoli folgoranti, Nicola Cattedra e prima ancora Gianni Brera e Giorgio Bocca. Paolo Murialdi era caporedattore. Poi Ugo Ronfani lasciò la sede di corrispondenza di Parigi e rientrò al giornale nella veste di vice direttore. Ronfani era coltissimo, aveva scritto libri interessanti e poi testi sul teatro parigino, su monsignor Lefevre… Ogni tanto si faceva sfuggire qualche vocabolo o un modo dire francese.
In cronaca c’erano galoppatori come Nino Gorio, che seguiva i processi e vinse il Premio “Cronista dell’anno” di Senigaglia per un “colpo” sensazionale. Lo aveva preceduto Franco Abruzzo, che per vent’anni è stato tra l’altro presidente dell’Ordine dei giornalisti della Lombardia. Abruzzo, come Gorio, aveva una cultura profonda ed era molto battagliero. All’epoca in cui era cronista giudiziario duellò con qualche cancelliere reticente, sparando considerazioni sul diritto all’informazione e rispolverando norme e cavilli. Una mattina appena sveglio sentii alla radio che, scavando come un archeologo alla ricerca di uno “scoop”, aveva battibeccato con uno di loro.
Quando don Gaetano lasciò la poltrona, arrivò un altro esimio direttore: Guglielmo Zucconi, che aveva una predilezione per la cronaca. Elogiò a gran voce il cronista che aveva descritto nei dettagli, grazie a “trombettieri” fidatissimi, e alla sua capacità di sgambare l’arresto del brigatista Mario Moretti, il luogo in cui era stato acciuffato, il covo, in cui era diretto, i testimoni… Era entrato anche nell’appartamento e contato i poliziotti che vi si trovavamo in attesa degli altri.
Zucconi era stato direttore della “Domenica del Corriere” e una sera a cena un altro cronista tra un discorso e l’altro rievocò la storia di un circo che tempo prima in provincia di Pavia aveva dovuto eliminare una tigre che aveva ammazzato il compagno. Grave lutto per un circo a conduzione familiare. E lui confidò di essere rimasto amareggiato, quando dovette pubblicare quella notizia sul settimanale, che tra gli illustratori aveva Walter Molino.
Guglielmo Zucconi teneva in palmo di mano i cronisti che trottavano rinunciando al sonno ed erano presenti al giornale, per loro scelta, anche nelle feste comandate e tutte le domeniche. Fu una viglia di Natale, a mezzanotte, che uno di questi cani da tartufi rispose alla telefonata di uno che voleva lavarsi la coscienza per aver ucciso durante la guerra due tedeschi e li aveva sepolti in un campo. Il cronista fece di tutto per convincerlo a dare nome e indirizzo, perché non poteva fidarsi di una voce. “Un giornalista è come un prete: non può rivelare le sue fonti, si fidi. Se è necessario va anche in galera”. Alla fine s’incontrarono e quello spiegò ogni dettaglio, la dinamica dell’uccisione, il luogo della sepoltura… Uscito l’articolo, il procuratore della Repubblica ordinò ai carabinieri di mandare la ruspa, i corpi vennero ritrovati e Zucconi mandò sul posto, in Emilia, l’autore del pezzo per raccontare il seguito. Dopo una trentina d’anni incontrò proprio a Martina Franca l’ufficiale dell’anagrafe che aveva svolto il lavoro burocratico di rito. Abitava nel paese che aveva fatto da scenario ai duelli tra Peppone e don Camillo, tratti dai libri di Giovannino Guareschi, che era stato direttore di “Candido” e negli anni ‘50 aveva ricevuto la lettera di un giovane, che, avendo acquistato una macchina per scrivere, voleva fare il giornalista e chiedeva consigli. Giovannino rispose: “La venda!”. Era un uomo instancabile, dalle idee felici e conoscitore di Milano, che aveva attraversato in bicicletta anche per motivi di lavoro. Mentre i cronisti andavano a piedi come alla Stramilano
Di direttori ne ha avuti tanti, il “Giorno”. Lino Rizzi era pacato, riservato, attento e non mancava di consegnare lettere di plauso a chi sgambava e mangiava polvere e panini. Al cane da tartufi che nel luglio dell’87 scoprì la fuga di Vallanzasca dalla nave Flaminia ancorata nel porto di Genova, fece elogi in un biglietto intestato: “Se tutti fossero come te questo giornale avrebbe una navigazione migliore”. “Il Giorno” aveva dunque naviganti di valore corteggiati dalla concorrenza. Appena arrivava una notizia schizzavano come lepri, seguiti da uno dei fotografi, che erano cronisti dell’immagine.
Per un lungo periodo capo della cronaca fu Enzo Catania, un siciliano carico di esperienze, vulcanico e sempre di corsa come un bersagliere. Possedeva un intuito prodigioso. Aveva intervistato mafiosi e aveva attraversato il Supramonte a dorso di mulo per cercare d’intervistare un latitante, seguito dall’ottimo fotografo Uliano Lucas. Poi diventò direttore e dalla plancia continuava a galvanizzare i galoppatori e quando facevano uno “scoop”, come quello di Nino Gorio si esaltava.
Nelle poche ore libere Catania scriveva libri gialli e ogni mercoledì teneva una trasmissione su “Antennatre Lombardia”, di cui noi facevamo il telegiornale, diretto da Aldo Catalani. Poi arrivò il ‘95 e suonò per me l’ora della pensione. Avevo lavorato due anni in più. Catania non voleva lasciarmi andare e fece di tutto per incatenarmi nel salone della cronaca. Lo salutai commosso, di più quando se n’è andato all’altro mondo. Tutti i direttori del “Giorno” di quei tempi hanno preso l’ultimo treno. Quel “Giorno” non esiste più da tempo.
(foto home page: Enzo Catania, Ottavia Piccolo e Piero Lotito; foto interna: Gaetano Afeltra nel suo ufficio, “Il Giorno”)






