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Il tipografo, un’altra era Ricordi

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Di Franco Presicci:

“Il tipografo non esiste più. Il tipografo come lo ricordiamo, come lo immaginiamo ancora oggi, era un signore abitualmente circondato da cassetti stracolmi di caratteri a piombo alle prese con la fedele Pedalina, la macchina più diffusa nelle piccole botteghe di una volta con cui si realizzavano biglietti da visita, volantini, manifesti pubblicitari e commerciali…”. Così è scritto nelle prime pagine di un libro elegante, interessante, profondo di Claudio Castellacci & Patrizia Sanvitale, edito in veste raffinato dal Saggiatore., con prefazione di Franco Cologni, fautore e pilota della Fondazione Arte e Mestieri d’arte. Scomparso come il calzolaio con il deschetto. Cercai affannosamente un sopravvissuto delle due categorie e finalmente a Coraico, due passi da Milano, su segnalazione di un amico, in fondo ad una una via deserta, silenziosa, quasi surreale, rintracciai Giuseppe Caleri, un giovanotto di 63 anni (oggi ne ha 80), che mi accolse con un sorriso che era un abbraccio . Correva anno 2007.
Mi guardava senza chiedermi il motivo della mia visita. Un giornalista che aveva bussato alla sua porta non poteva essere un cliente o forse sì, e rimase qualche minuto ad osservarmi, mentre io davo uno sguardo a tutte le macchine “rivoluzionarie che occupvano i mille metri dello stabilimento. Quando gli comunicai che desideravo intrecciare una conversazione con lui sulla tipografia di una volta, disse disponibile, a patto che io restassi a pranzo con lui e il figlio Alberto, suo valente collaboratore. Accettai: non potevo sottrarmi a quella condizione. “Bene, vieni”, e mi condusse in un angolo a sinistra rispetto all’entrata, e mi mostrò il suo cimelio: la cassettiere e tutto l’apparato composizione e stampa dei tempi ormai antidiluviani. Eccomi: ero una statua di sale come la moglie di Lot. Quel cpmplesso mi riportava agli anni in cui a Taranto frequentai la tipografia di Leggeri, che sformava il giornale satirico “’U paanrìdde”, distribuito in tutta la città da uno strillone speciale, Marche Poll. A un vecchio come me i ricordi sono cari: mi fanno sentire come la locomotiva a vapore che per cambiare il senso di m marcia si piazzava sulla piattaforma girevole. Volevo fare il tipografo, indossare il camice scuro, avere nel taschino la pinzetta. Ma poi cambiai idea,, rimanendo affezionato a quell’ambiente. Al “Giorno” scendevo spesso in tipografia, quando facevo il turno di notte. C’era una regola ferrea: superando la soglia occorreva togliersi il cappello, per evitare che insorgesse il proto. Ma questa è un’altra storia.
Dai sogni mi svegliò Giuseppe: “Pronto in tavola!” Spaghettoni con il sugo e un sarago monumentale”. Quando entrai, indicandomi la sedia, declamò: ”Io qui sono tipografo e contadino. Adesso ci godiamo in santa pace il cibo, poi facciamo la siesta e alle 16 ti mostro il mio orto, da dove arrivano quel sedano e quei pomodori, che sono lì, su quel tavolino”. Giuseppe dettava comandi con una cordialità esemplare. E alla fine eccoci tra verdure rigogliose, una ghirlanda d’uva che faceva da cornice a una porta chiusa; e un albicocco, un fico, un ulivo, che faceva pensare alla sua storia millenaria, alle sue testimonianze antiche.
“Giuseppe, la tipografia! Sono venuto per questo”. “Aspetta soltanto altri cinque minuti: adesso passa il treno che parte dalla stazione di San Cristoforo e voglio farti sentire il fischio e lo sferragliare”. Il treno ululò e finalmente rientrammo nello stabilimento. Gli dissi: “Lo sai che somigli a Errol Flynn, l’attore che esordì nel ‘35 con il film “Capitan Blood?”. “Ma non è per me un film di cappa e spada”. “Saresti piaciuato ai futuristi, i seguaci di Marinetti, che esaltavano l’arte tipoghrafica”. “La tipografia, appunto”. Già, mi capita di divagare”. “Non custodisco gelosamente la vecchia tipografia per motivi collezionistici. Ci lavoro anche. Quando mi afferra la nostalgia apro la cassettierae Così penso anch’io da tantissimo tempo, da quendo trent’anni fa lasciai “Il Giorno” per raggiunti limiti d’età. E da allora ho peregrinato tra vie e piazze, alla ricerca di una tipografia come quella di Leggeri a Taranto, la mia città, in cui entrai per la prima volta quando avevo 13 anni, spinto da una forza rimasta ignota. Non la conosco neppure adesso. Certo è che in quella fucina in cui si stampava un giornale satirico. “’U Panarijdde”, che veniva diffuso da uno strillone famoso in tutta la città e oltre, detto Marche Poll, avvertivo un certo fascino. Oltre al periodico in dialetto, arieggiato dallo spirito brillante e divertente del poeta, scrittore, commediografo Alfredo Lucifero Petrosillo, il simpatico “urlatore” vendeva la schedina del Totocalcio.
Lo vidi stampare, quel giornale, e avvertii la voglia di scegliere il mestiere di tipografo per guadagnarmi il pane. Con il passare del tempo fui distratto da altro: entrai da esterno in un’altra tipografia, quella del quotidiano storico di Taranto “Il Corriere del Giorno”. Ma non indossando il canice scuro, quello di chi era seduto alla linotiype, ma per scrivere. Poi feci il mio ingresso in un grande quotidiano a Milano, “Il Giorno”, e lì respirai l’aria di un’altra tipografia, prima che irrompessero le innovazioni tecnologiche. Feci in tempo a sentire l’odore del piombo e quello del petrolio con il quale si lavavano le pagine di piombo dopo aver realizzato i bozzoni.
Quel tipo di tipografia io cercavo e alla fine la trovai a Corsico, subito dopo Milano. Un grande stabilimento con macchine moderne, ma con la vecchia tipografia seminascosta in un angolo. Gioii quando il titolare Giuseppe Caleri me la mostrò con entusiasmo, quasi con gioia. Ci aveva lavorato per anni, facendo autentiche opere d’arte. Finalmente la cassettiera, il vantaggio, la balestra, il tipometro, la taglierina erano sotto i miei occhi. Caleri compose la mia firma e me la consegnò in regalo. Poi il grande tipografo mi invitò a pranzo nella cucina, attigua al luogo di lavoro, e mise in padella un sarago spettacolare e in pentola degli spaghettoni.
Non volle affrontare subito la conversazione sulla sua vita professionale. “Io qui faccio il tipografo e il contadino, quindi, quando avremo finito di magiare, ti mostrerò il mio orto, i miei alberi: un fico, un albicocco, un ulivo che spande i suoi rami ad ombrello a un lato dell’orto, mentre ascolti il fischio del treno che parte dalla stazione di San Cristoforo. E’ solo quel fischio che qui rompe il silenzio, e mi piace sentire lo sferragliare sui binari”.
Era riposante girare tra finocchi, zucche, melanzane, pomodori, lamponi, peperoni; e quella pergola gravida che pendeva su una porta chiusa facendole da cornice. Lo guardai e gli dissi: “Lo sai che hai una certa somiglianza con Errol Flynn, l’attore inglese che esordi nel ‘35 con “Capitan Blood”. “Non lo so, non ci ho mai pensato. Ma vero o falso che sia, mi vedi in un film di cappa e spada?”. “Era una battuta, ma la somiglianza…”. Anche se qualche regista lo volesse, lui risponderebbe sicuramente di no. “E’ vero però che saresti piaciuto ai futuristi, che esaltavano l’arte tipografica, Marinetti testa”. Sorrise.. “Dobbiamo parlare delle mie improbabili capacità cinematografiche?”. “Ma no, io desidero sentirti raccontare la tipografia di una volta; quella che oggi è una leggenda. La tipografia come sai farla rivivere tu, che l’hai vissuta con passione; quella che tu custodisci gelosamente come un reperto archeologico”. “Non la tengo lì a scopo collezionistico: ci lavoro anche”. Quando gli prendeva la nostalgia, apriva la cassettiera, prelevava i caratteri come faceva agli inizi della sua carriera, componeva, schierava le righe sul compositoio, quindi sulla balestra e stampava. Soprattutto biglietti da visita. Gli venivano le lacrime pensando ai tempi lontani. “Vedi questo telo?”. Lo sollevò e comparve la storica Pedalina: “la macchina da stampa più usata nelle vecchie tipografie”. Più in là campeggiava la “Heidelberg Stells”, di fabbricazione tedesca, che aveva almeno 120 anni”.
Quando ’l Giorno’ era in via Fava, anche dopo i nuovi elementi portati dal progresso, sentivamo l’odore del petrolio, mentre il bozzone ancora bagnato veniva collocato sullo sportello della parete confinante con i revisori. Bene, sto per dire un’eresia: io quell’odore a volte lo sento ancora. Forse proviene dall’amore che continuo ad aver per quel sacrario. “Io non ho mai lavorato nei giornali – commentò Caleri – ma conosco l’ambiente… Il piombo! E’ finita anche quell’epoca. A partire dagli anni ‘70 è stato gradualmente detronizzato fino a scomparire del tutto. Quando c’era il piombo mi sentivo più creativo, avevo più libertà nell’accostamento dei caratteri, potevo realizzare una pagina perfetta con spazi bianchi e interlinee armonizzati. Adesso il computer ha soffocato il campo della fantasia”. Era evidente che l’argomento gli dava amarezza.
E’ un uomo sensibile, un po’ romantico, legato ai vecchi valori. Mi portò in ufficio, dove mi mostrò un libro da lui eseguito in occasione di una visita del presidente della Repubblica Giovanni Leone all’Università di Bari, che lo aveva avuto come docente di diritto e procedura penale tra il ‘40 e il ‘47.
Aveva 13 anni quando entrò in una tipografia della Bovisa (una volta il quartiere delle fabbriche), per fare l’apprendistato. Ben collaudato, si trasferì alle Arti Grafiche Rosignani, dove fece lavori di alto prestigio. Nel ‘70 l’azienda traslocò a Pero e lui venne assunto dal famoso Maestri, che fu protagonista, nel ‘63, di una grande mostra organizzata dal Comune alla Terrazza Martini, dove vennero esposte tante sue opere, compresa la “Divina Commedia” illustrata dai pittori Dova, Migneco, Crippa, Guttuso. Quell’opera era stata eseguita con i sistemi di allora da Giuseppe Caleri e da due suoi colleghi, in due anni. Giuseppe scioglieva la memoria senza enfasi, con spirito di cronaca, senza accennare alla fatica costata per fare un lavoro così impegnativo.. “Ti dirò di quel giorno in cui in sella alla motoretta che mi aveva regalato il titolare caddi e mi ingessarono il polso. Un guaio enorme. perché avevo del lavoro da terminare. Con il taglierino mi liberai il pollice, mi feci mandare ciò che serviva a casa e tenendo le pagine di piombo sulle reti del letto terminai ‘I viaggi attorno all’Africa’ in tre volumi.. Poi con un collega mise su una bottega tipografica in uno scantinato a San Siro. Dallo scantinato nell’80 passò allo stabilimento di 1000 metri, “Mi sono modernizzato anch’io, senza rinunciare completamente alla cassettiera e al vantaggio. “Vai ancora in Sicilia a dare una mano a quel tuo amico nella cura della terra. Un tempo lo facevi ogni anno”. “Sono andato in Puglia, a Martina Franca, Alberobello, Ostuni, Otranto… Amo la Puglia”.

 


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