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Viaggio in pallone Ricordi

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Di Franco Presicci:

Fu un pomeriggio esaltante. Non avrei mai pensato che un giorno mi sarei calato nella cesta di un aerostato che si apprestava a volare verso le nuvole. Me lo chiesero e non seppi dire di no. L’interlocutore non si accorse di un pizzico di titubanza e mi ringraziò: molti avevano rifiutato. Io affrontavo tutto quello che mi incuteva paura e questa avventura mi affascinava. Una settimana dopo raggiunsi lo stadio Senigaglia di Como, da dove i “volatili” dovevano partire per unna gara organizzata dalla Henkel. Facemmo una sosta davanti all’entrata, perché i vigili del fuoco stavano gonfiando i palloni ed era pericoloso avere gente tra i piedi.
Dopo una un paio d’ore entrammo e captammo la voce al microfono di Febo Conti, che molti ricorderanno, avendolo magari visto a “Chi sa chi lo sa” sulla Rai e nei panni di Ridolini. Febo si sgolava per dare tutte le informazioni della competizione e i nomi dei giornalisti, dei fotografi mentre si accingevano a… mettere le ali. E li rifaceva a mano che si sollevavano da terra. Arrivò il momento stabilito e sentii la voce di Febo Conti che invitava la folla a prendere posto. Silevò il primo e grandinarono gli applausi
Io mi calai nella cesta di un aerostato tedesco, il cui pilora era L. Bergner, assistito da un co-pilota. Con noi c’era la moglie del presidente della Henkel, che aveva organizzato la manifestazione.
Momento emozionante, la partenza. Il pallone saliva, saliva come una piuma, e le automobili sembravano sempre più piccole fino ad arrivare alle dimensioni dei modellini esposti nelle vetrine dei negozi specializzati e i motoscafi moscerini veloci che tagliavano l’acqua, lasciando dietro di loro scie di schiuma. Che spettacolo, da quell’altezza, in un silenzio totale con il paesaggio che si riduce a un plastico da tavolo. Mi trovavo su una specie di balcone sospeso nell’aria . Improvvisamente sentimmo un boato: il pallone della Henkel, che per motivi pubblicitari viaggiava a circa quattro metri, era scoppiato avendo cozzato contro i fili dell’alta tensione: il giornalista del “Corriere della Sera”, Negretti, si fece male a una spalla e l’attrezzatura del fotografo andò in frantumi. Bergner si agitò, continuava a a urlare al microfono “Martini, Martini…”, “Questo adesso ci fa precipitare, perde il controllo”, pensai. Si placò quando gli assicurarono che tutti erano sopravvissuti.
Intanto il cielo si oscurava. Il pericolo di questi viaggi sono l’aquila e il maltempo. Il co-pilota per cercare la corrente si mise con i piedi sull’orlo del “balcone”: per salire gettava già cucchiaiate di sabbia della zavorra; per scendere tirava una cordicella che toglieva aria al pallone. Vederlo in quella posizione mi creava ansia. A un certo punto cominciò a soffiare il vento, prima debole, poi più forte e più forte ancora; ci spinse contro una cengia ed ebbi l’idea assurda di fare un salto per conquistarla; ma l’aerostato si allontanò. Poi il vento schiaffeggiò forte il pallone e lo sbattè contro un altro risalto, più ampio e vi fummo scodellati. Intervenne la pioggia e ci rifuggiamo in una sorta di piccolo ovile lastricato di “olive caprigne”. Si scatenò il temporale, che ci costrinse a rimanere in quel buco. Poi Bergner lanciò il primo bengala per dare la nostra posizione all’autista della Renger Rover che ci seguiva, ma andò a vuoto. Stesso risultato per i successivi. Arrivò il buio. L’ultimo bengala fu visto e secondo le indicazioni del “terrestre” cominciammo a scendere. Si fece molto tardi, a stento vedevamo dove mettevamo i piedi. Io volevo subito andare a rimettermi al volante e tornare a casa, pensando che mia moglie potesse aver visto in televisione la scena del pallone caduto e si preoccupasse per me. Ma Bergner non mi lasciava andare, mi teneva per il braccio, mi parlava in tedesco e io non capivo una mazza. La signora mi spiegò che voleva portami nella vicina trattoria. “Ma io non voglio mangiare, mia moglie mi aspetta”. “Lui non vuole invitarci a cena, vediamo che cosa vuol fare”. Mi lasciai convincere ed ebbe inizio una specie di cerimonia, con uno “shampoo” di sabbia della zavorra irrorata di birra, accompagnato da parole nella sua lingua, che dovevano essere rituali. .
Passò qualche mese e mi arrivò un attestato (“Wir, derFraiballon Martini”) con la nomina a principe di Lenno (era il luogo in provincia di Como in cui eravamo caduti, vincendo la gara). Nella prassi dei pallonisti o pallonari o comunque si chiamino chi naviga per la prima volta a bordo di un aerostato viene investito di quel titolo, che non ha nulla a che vedere con i casati. Io naturalmente non ne ho mai approfittato, ma i colleghi, letto l’articolo, si divertivano a chiamarmi sua altezza.
La promessa, fatta a me stesso, non servì a nulla. Quando qualche anno dopo fui invitato a una gita in mongolfiera accettai subito e mi presentai all’appuntamento con il bravissimo fotografo Mario Taito. Questa volta nella cesta eravamo in due: io e il pilota. Taito in un’altra. Mi stregava quella fiamma alimentata all’interno, dando forza al… velivolo. Il conducente mi sembrava spericolato, ma dotato di una lunga esperienza, nonostante la giovane età. M’inebriava il paesaggio che si allontanava sempre di più. Ma anche questa volta cominciò a soffiare il vento. Il pilota sembrava tranquillo, io no. Mi resi conto della velocità che la corrente ci imponeva quando sorvolammo il tetto di una fabbrica. Mi dissi: “Chi, ma chi me l’ha fatta fare? E’ stata una pazzia anche questa volta”. E pensavo al pericolo che ci stava di fronte. Mi confortavo un pochino il pensiero che avevo di fronte a uno che aveva attraversato il cielo chissà quante volte e che quindi sapesse quello che faceva. Sorridendo, cercava di rassicurarmi: “Tranquillo, tranquillo, mi sono trovato in situazioni peggiori. Comunque faccia così: tenga le mani sulle manigliee leggere le gambe e si abbassi: se si creasse un problema lì in fondo ci sono quegli alberi ad alto fusto e quelli attenueranno la discesa”. Parlava di discesa; io avevo in mente una altra parola. La stessa che mi balenò il giorno il giorno in cui, per esaudire le richieste del fotografo, Stefano Cavicchi, l’elicottero aprì lo sportello e si piegò un tantino: “Oddio, ora il mezzo ci vomita giù”. Anche se eravamo ben assicurati alla cintura. In compenso ci fermammo sul mio condominio e detti gli auguri per il nostro anniversario a mia moglie, affacciata, come altri, per curiosità.
Tornando alla mongolfiera. Era già in fase di …discesa. Il pilota andava verso la piantata padana (così si chiama la serie di alberi magari messi a dimora per segnare un confine). Mi ordinò di seguire il consiglio che mi aveva dato e la mongolfiera si scontrò violentemente contro quella barriera. Notai che tanta gente era sui balconi, altri in strada,attorno a noi, con la paura che ci fossimo fatti male. No, nemmeno un graffio. E allora la gente mi fece tante domande sul viaggio e la sua pericolosità, su che cosa si prova a trasformarsi in uccello migratore, su che tipo di aria si respira a oltre mille metri di altezza, sulla differenza tra aerostato e mongolfiera. Io rispondevo per soddisfare la loro attenzione, ma non avevo ancora smaltito la paura.
La gara in kajak sul Naviglio Grande una domenica pomeriggio di luglio fu entusiasmante. Io ero seduto dietro e osservavo le ville, le cascine, i castelli, i prati ben pettinati, le famiglie che percorrevano la sponda in bicicletta. Ma ai salti m’inzuppavo d’acqua e non avevo protetto il portafogli con un una busta di cellophan. All’arrivo in darsena grondavo acqua. Per scrivere non tornai al giornale, ma andai a casa per darmi una sistemata. Potevo dire di averle vissute tutte. Non potetti fare la traversata dello stesso naviglio a bordo della Viscontea, una bellissima barca ideata dall’architetto Empio Malara, che mi aveva invitato e ancora oggi mi pento.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


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