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Il consiglio comunale dei polli con i nomi famosi, che un ladro di galline fece sparire Ricordi

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Di Franco Presicci:

Conobbi un bandito che aveva tanto fatto parlare di sé. Arrestato a Parigi, finì in carcere e vi rimase un po’ di anni. Poi ottenne la grazia e tornò in libertà. In carcere, mi tacconta un amic, allora poliziotto penitenziario, aveva un comportamento modello: mai una protesta, mai un atto di indisciplina, svolgeva bene il suo compito di lavorante. Aveva cominciato la carriera spopolando i pollai, in compagnia di uno che si era dato un titolo nobiliare e tutti lo chiamavano conte. Quando gli parlai per un’intervista al tavolo della trattoria che aveva aperto a Milano, lo trovai sereno, rinato, molto diverso dai giorni in cui era ricercato. Ripercorrendo i suoi esordi, mi disse che era pentito di aver rubato galli e galline, perché le vittime erano povera gente, che campava con niente. Aveva un nome ed uno pseudonimo che un giorno sì e uno ispiravano i titoli dei giornali. Il capocronista del “Corriere della Sera”, prendendo spunto da un oggetto scoperto nell’androne di un palazzo, dove si diceva che il personaggio era stato visto entrare, gli affisse l’etichetta che lo accompagnò fino alla conclusione dei suoi giorni.
Nessun cronista pescava nelle sue origini. E pochi vi facevano accenno per sentito o per qualche voce catturata in questura. Quindi nessuno sapeva di più. Lo seppero quando lui si confessò in un libro, che non è mpiù in circolaziome. Il mio amico e collega Piero Colaprico, oggi direttore del Teatro Gerolamo, portò la sua vita in teatro.
Quando dissi all’intervistato che avevo raccolto la sofferenza di un signore che una brutta mattina aveva trovato vuoto il suo gallinaio e pianse a lungo, si commosse, e vedendomi sorpreso disse: “Anche i criminali hanno un cuore”. Quelli che quella mattina erano arrivati con un grosso furgone nell’orto della persona che chiamerò Carlo, perché il tempo ha cancellato il nome della memoria, certamente il cuore non ce l’avevano.
Il vice capocronista del “Giorno”, Sergio Battaglioli, mi chiamò quasi all’alba, sapendo che pur occupandomi d’altro, non mi sarei rifiutato di occuparmi di quell’episodio toccante. E infatti con la mia macchina raggiunsi il luogo, all’estrema periferia della città, scesi, attraversai un sentiero erboso, oltrepassai il cancelletto fatto di legno e rete metallica qua e là arrugginita e trovai l’uomo con lo sguardo fisso verso il muro e gli occhi liquidi. Poteva avere sessant’anni, aveva ricevuto in uso quel pezzetto di terra dal Comune, aveva fatto l’orto e in quattro muri arrangiati elevati da lui stesso in qualche maniera aveva sistemato una trentina di palmipedi, tra galli e galli. A ciascuno aveva assegnato il nome di una personalità dello spettacolo . Mi descrisse Milva così bene, che non mi fu difficile immaginare l’eleganza del comportamento della bestiola, che si pavoneggiava quando intercettava Pippo Baudo, un gallo dalla cresta e dai bargigli superbi, passo da maratoneta ben collaudato.
E poi c’era il consiglio comunale al completo: ogni pollo aveva la carica di quelli che sedevano nell’aula consiliare, sindaco compreso. Erano la sua gioia, i suoi amici, i suoi confidenti. Quando chiamava Adriano o Bobby o Teddy (Celentano, Solo, Reno) o Don Backi, i pennuti accorrevano e lui li accarezzava, diceva loro belle parole, li temeva in braccio. E se stava seduto, dopo aver curato l’insalata e le melanzane, gli saltavano sulle gambe per giocare. Lui era buono, affezionato, disponibile. Avrebbe potuto lui nominarsi sindaco di quel piccolo villaggio, ma dare questo incarico a Joe (Sentieri), che al pari del cantante che al termine della canzone faceva il saltello, era stato un atto dovuto. Ogni volta che chiamava, Joe si divertiva a fare balzi sul muretto, poi si voltava e guardava il padrone (ahi, no, questa parola non la voleva sentire), che credeva lo facesse per mostrare la propria bravura di atleta olimpionico (si fa per dire).
Sapevo che cosa voleva dire perdere un animale, perché da ragazzino un gatto bianco e nero azzannò il mio Cibiriccì, un uccellino che avevo scoperto tra la neve, ancora implume, e lo avevo fatto crescere con l’esperienza della nonna in un cestino conico che serviva per custodire i gomitoli di lana.
Cercai di confortere Carlo, accennano al dolore che avevo provato io, ma lui mi chiedeva fra le lacrime: “Inviti i ladri a riportarmi il miei amici, scrivendo un articolo sul suo giornale. Avranno anche loro dei figli”. Promisi che l’avrei fatto: una paio di volte mi era andata bene: avevano rubato in casa di un vip oggetti di solo valore affettivo, e il lestofante mi fece trovare la refurtiva nel bidone della spazzatura vicino al benzinaio di via Palestro. Lo stesso era accaduto con il furto di un crocifisso strappato dalla tomba di un prete molto venerato. Chissà, poteva andare bene anche questa volta
All’epoca alcuni cronisti del “Giorno” collaboravano con “Antennatrè Lombardia”, diiretta da quel gran signore di Enzo Tortora. La redazione del telegiornale era nello stesso palazzo del giornale dell’Eni, al quarto piano ed era curata da Aldo Catalano. Aldo aveva lavorato come me al quotidiano “L’Italia” (io agli Spettacoli, lui alla Politica) e lo sapevo molto sensibile. Gli riferii l’accaduto e mi rispose di preparare subito un servizio, che avrebbe mandato in onda la sera, aggiungendo che se Carlo fosse d’accordo avrei potuto intervistarlo in tivù il giorno dopo. E così fu. Credo che fosse un mercoledì. Ci trovammo a Legnano, dove c’era la sede centrale della televisione, che aveva tra i conduttori Ettore Andenna e commentatore Emzo Catania, capocronista del “Giorno, e io raccontai tutti i particolari della storia del pollaio svuotato. Ricevemmo telefonate di gente indignata che chiedeva come mai nessuno si fosse accorto del movimento e se la prendeva con chi pur vedendo finge di non vedere. “Siamo un Paese di menefreghisti!”, urlò una signora. E Carlo rispondeva che la notte la gente per bene dorme e non c’era da meravigliarsi se non ci fossero testimoni. E poi i ladri sanno come e quando entrare in azione, è il loro mestiere, sono professionisti. Altri cercavano di dare speranze, suggerivano di aspettare, perché magari quella gentaglia avrebbe ascoltato la voce della coscienza, e tutti ne abbiamo una. Comunque nessun segnale arrivò da quel fronte. Sicuraemnnte i polli di Carlo erano già esposti al mercato.
Ero da poco al giornale quando da Antennattrè Lombardia ricevetti una telefonata: un signore della provincia di Pavia era disposto a donare a Carto 30 pulcini. Gioii come avessi vinto un terno al lotto e chiamai Carlo. Mi fece parlare e poi disse: “Non sono Donaggio e Modugno, quelli che mi vengono proposti, quindi ringrazio cordialmente quella bravissima persona, ma non me la sento di accettare. Non so nemmeno se un giorno vorrò ripopolare il mio orto. Per ora non ci vado neppure, soffrirei troppo a non trovare i miei beniamnini”. Chi non ama gli animali non può capire il dolore di Carlo.
Sono passati anni, non ho mai dimenticato quell’esperienza, la bontà, la dolcezza di Carlo, il suo cuore. La storia commosse molti. Molti altri mi telefonarono, non per dare galli e galline, ma per solidarizzare con la vittima. Non l’ho più sentito, Crlo. Ma la vicenda mi è rimasta dentro, come quella di Gibiriccì aggredito dal felino quando ero un virgulto.

 


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