Di Franco Presicci:
Alle sagre di Crispiano, del peperoncino, dei funghi, del fegatino, non sono mai mancato. E mai alla Ghiromda a Martina Franca, con tutti quegli spettacoli che ingolfavano i vicoli (un anno montarono un tipì indiano sullo Stradone). Amo la folla. la gente che si diverte, passeggia, gustando un gelato, conversando. A Crispiano era Michele Annese che mi dava la sveglia. Una telefonata e una novità: “Quest’anno viene il professor Biagi, un esperto di habanero e altre diavolerie. Ci devi essere, ti aspetto”. Infatti una di quelle di Crispiano aveva l’insegna “d’u diavulìcchie asqunànde”. Ce n’erano di tutti i tipi, quelli che avevano tenuto il primato della piccanteria e quelli che al massimo livello li avevano sostituiti. È breve il tempo dei camioni, nel settore. L’habanero si coltiva nello Yucatan e infiamma il palato.
Il professor Biagio (foto, ndr.) docente all’università di Pisa, non ricordo più in quale materia, arrivò, e arrivò anche negli anni successivi, aprendo un grande stand, con la scritta “Peperoncini nel mondo”. Al centro una tavola che sembrava una tavolozza: peperoncini di ogni tipo e di ogni colore. In un angolo piante della spezia inventate da lui. Biagi era un uomo calmo, dall’aspetto severo, pronto ad ogni domanda sulla forza e le doti di ogni “diavulìcchie”, sull’origine, sulla storia, sul luogo di nascita e tante curiosità. Mi fermai a lungo a parlare con lui, tutto quello che diceva era interessante, catturava l’attenzione di chi lo ascoltava. Descriveva le sue polveri di peperoncino, fornendo dettagli.
Poi Michele ed io riprendevamo il passeggio e ascoltavamo i commenti sparpagliati nella folla. I vecchietti che vantavano proprietà erotiche della spezia e la spargevano sul gelato, sul caffè, sulla mozzarella: “Ma tu hai provato personalmente nell’alcova queste capacità del peperoncino?”. “Beh, adesso vuoi sapere troppo. Prendi per buono quello che ho detto senza entrare nei particolari”. Uno raccontava che una sera era stato invitato a cena da un amico e la padrona di casa servì piatti di pasta e ceci. Uno dei commensali, facendo in modo che tutti, proprio tutti, lo vedessero, mangiò un peperoncino intero. Un altro volle imitarlo e dovettero chiamare i vigili del fuoco”. “Davvero?”. “Ma no, si fa per dire”. Una signora imbellettata, vesgtita come a una serata di gala diceva a una vicina: “Lo sai che il peperoncino ha una funzione apotropaica?”. “sììì?”. “Beh, la sua sagoma ha ispirato il corno che i napoletani portano in tasca e lo lisciano e stralisciano ogni volta che c’è pericolo di jettaura”. Abbiamo ascoltato anche questo. E anche altro. “Qualcuno che conosco lo fa pendere dal taschino del “gilet”, perché si sappia che è immune dal malocchio”.
Michele – oggi non c’è più – ed io ci accomodammo su un muretto per ascoltare Giorgio Di Presa – che ha un negozio di erboristeria a Martina Frasnca – impegnato in numeri di divertente intrattenimento. Ci vide Vito Santoro, virtuoso fisarmonicista, custode di tutte le tradizioni, degli usi e dei costumi di una volta e ama parlarne con un’apprezzabile “vis comica”. Lo si ascolta volentieri anche quando descrive l’albero della cuccagna, che s’installava soprattutto nelle feste patronali con tanti spettatori ansiosi quando vedevano i partecipanti scalare il palo e scivolare a terra per essere sostituiti da un altro e da un altro ancora, a causa del sapone che vi era stato stratificato. Poi l’ultimo della lista arrivava in cima e saccheggiava il bottino: formaggi, salsicce ed altro ben di Dio. Io mi aspettavo che alla sagra Vito abbracciasse la fisarmonica e intonasse qualcuna delle sue canzoni, ma non fu così. La gente continuava a fare la ronda. Chiesi a uno che vendeva le friselle con olio, sale e pomodori. “Non mi dirà che alcuni mettono la spezia sulla frisella?”. “Glielo dico. C’è chi lo mette sulle friselle. Sono patiti. Del resto ho sentito dire che anche Mao-tsè- tung amasse il peperoncino. E anche tra i nostri politici ci sono adoratori.
Michele era l’uomo delle sorprese e verso le 23 ci condusse in un vicoletto, dove una signora quasi ottantenne ci offrì delle orecchiette con il peperoncino. Con noi c’’era il dottor D’Addario di Oria, presidente dell’associazione del peperoncino del suo paese. Era una fonte inesauribile di notizie ed era in contatto con la consorella maggiore che in Calabria, a Diamante, organizza il festival del peperoncino, vinto un anno da uno del Nord, che ne aveva buttato giù 700 grammi e un altro anno un secondo era arrivato a un chilo.
“Dottore, ho una curiosità: è vero che che il peperoncino, fra le sue tante caratteristiche, ha anche quella di intervenire nei momenti di intimità?”. Mi dette una spiegazione come dire, tecnica, che per la verità non mi sento all’altezza di riportare. Ma tutto sommato credo che confermasse. Dopo la cena preparata da questa signora maestra della cucina, tornammo anche noi alla ronda, continuando a captare i dialoghi spassosi di personaggi che affermavano di saperla lunga e facevano nome e cognome di persone illustri innamorati della spezia. Un giorno fui invitato a pranzo nella villa di un amico e la moglie mise in tavola una pastasciutta davvero infuocata. Era di origini lucane e pensai che da quelle parti si mettessero nel piatto più spezia che pasta. Non avevo mai visto una cosa simile. Stavo davvero per chiamare i pompieri. Scherzi a parte, stetti un bel po’ di tempo con la bocca aperta, sperando che l’effetto si placasse. Fuori faceva un caldo forte e non ebbi alcun giovamento. Ciononostante, non ho smesso di fare uso di peperoncino, in dosi sopportabili.
Lì, alla sagra, dopo le orecchiette, un cuoco raffinato, un amico di Michele, ci invitò a gustare la sua pasta e fagioli e peperoncino. Sapevamo che perdevamo una prelibatezza, ma fummo costretti a rinunciare, dirigendoci allo stand di Alfredo De Lucretiis, organizzatore con “Gli amici da sempre” della sagra. Lo spazio era adornato di peperoncini: pendevano a mazzi dall’alto, dominavano al centro, in ogni angolo; le collaboratrici erano in tenute di colore rosso. Commentammo la festa: una celebrazione, una santificazione del peperoncino, già incoronato re in ogni dove. Sbucammo nella piazza e ci imbattemmo in Antomino Carlò, di Oria, che intrecciava giunchi per mostrare come nasce un cesto. E’ un maestro nella sua arte. Autentico maestro, come De Lucrezis nella realizzazione di presepi di grandi dimensioni, con pane o biscotti scaduti: presepi affascinanti, con motagne e grotte illuminate saggiamente: una favola, una magia, una sceneggiatura bellissima. Poi ebbero l’idea di lanciare il pomodoro giallo di Crispiano e avevano previsto un’altra sagra. Non si fermano mai questi “amici da sempre”, con mogli, figli, nipoti al seguito.
Neppure Michele Annese, che apprezzava la sagra del peperoncino, si fermava mai. Quando il centro della cultura, che era la biblioteca “Carlo Natale” chiuse, lui, già in pensione come segretario generale della Comunità Montana, istituì l’università del tempo libero e del sapere, affidandone la direzione alla moglie, la professoressa d’italiano Silvia Laddomada, che ancora oggi, in onore del marito, continua un’attività intensa di conferenze su ogni argomento, dibattiti e molto altro e serate nusicali con Vito Santoro e suonare e a raccontare fatti e personaggi di un tempo lontano, con un linguaggio fervido, qualche volta garbatamente allusivo, mai sconveniente, intervallato, da uno “strappo” di fisarmonica. Vito fra i tanti suoi meriti ha fatto rinascere la serenata, quella degli innamorati sotto la finestra della donna del cuore, interrotta da secchiate d’acqua quando non è gradita. Almeno così quando era diffusa. La serenata invade i balconi di suoni e di canti sentimentali, facendo accendere luci nel pieno della notte. Ah, l’amore, questo composto chimico che non si riesce ad interpretare! Santoro oggi è il sovrano della serenata a Crispiano e ama la sagra del peperoncino. Non ne perdeva, almeno quando la frequentavo io. I primi di settembre, pochi giorni prima della mia ripartenza per Milano. Giorni tristi: lasciavo ancora una volta la “mia” Martina, la sua campagna con le viti inginocchiate, gli ulivi, i fichi le querce, gli alberi cari al pittore Filippo Alto, a cui Giuseppe Giacovazzo dedicò pagine su “Paese vivrai”: un giorno di inviterò nel mio paese, tu lo dipingerai, io lo rivivrò nel tuo racconto pittorico. Il paese è Locorotondo, una bomboniera seducente, di forma circolare, silenzioso, con i vicoli ordinati, riposanti e sempre ricchi di fiori. Giacovazzo vi aveva fatto costruire la sua villa, che secondo Alto era una sorta di anfiteatro, dove giornalista voleva portare Bogiankino.