Di Franco Presicci:
Una valigia può diventare uno scrigno di ricordi, belli o brutti. E quando viene voglia di aprirla si è inondati dalla nostalgia. Anche se non contiene nulla, anche se è messa in un angolo o su un armadio, perché tanto è vecchia e non la si userà più per un viaggio. Quella che conservava nel suo laboratorio di borse, di Martina Franca, Domenico Carbotti, anche se un po’ malridotta, aveva il suo valore e la sua storia. Faceva immaginare vecchie amicizie, tempi lontani, incontri, scarpinate, fatiche, ansie, persone ormai partite per un percorso senza ritorno.
Una domenica mattina di tantissimi anni fa un amico, eccezionale giocatore di scopone, con cui tutte le sere duellavo in un ex negozio adibito a laboratorio di ceramica di Peppino Cito, nel ringo, di fianco a una chiesetta di fronte alla sacrestia della Basilica di San Martino, mi invitò a fare due passi fino al Foro Boario, laddove si erge la caserma della polizia; e giacchè eravamo lì, decise di fare visita al cognato, che aveva la ditta in una villetta nei pressi.
Si chiamava Domenico Carbotti e ci ricevette con la cortesia del principe di Monaco. Ci mostrò ogni angolo del locale, alcuni esemplari di borse, le macchine, insomma tutto quello che c’era da vedere. Osservammo con attenzione e interesse. Poi notai una valigia un po’ vecchiotta su una mensola. Non so perché fossi quasi attirato da quel “bauletto”. Lo osservai più volte e fu come se quella testimone di viaggi continui e pesanti mi chiedesse di farsi aprire o ero io che desideravo farlo e non avevo il coraggio di esprimere quel desiderio a Domenico, impegnato a spiegare a Peppino Cito come funzionava una delle macchine installate in vari punti del salone.
Ma la curiosità esplose. E allora Domenico prese una scala, salì, afferrò l’oggetto, lo mise su un tavolo e lo spalancò. Mi sembrò di cogliere in lui una certa emozione, una certa esitazione a parlarne; ma dopo qualche secondo riferì il motivo per cui la valigia era su quella mensola come fosse un cimelio. Peppino Cito, che non aveva remore a dire pane al pane e vino al vino, mi lanciò uno sguardo un po’ malizioso, come per dire: “Che cosa t’importa, è una semplice valigia e basta”. E io avrei voluto rispondergli che non si tiene una vecchia valigia in più punti scorticata in bella mostra come – che dire? – una scultura di Crhisto Javaceff. Al momento dell’apertura mi emozionai un tantino anche se all’interno non c’era niente.
Non era una semplice valigia, di quelle che hanno accompagnato i meridionali sulla Freccia del Sud al momento del salasso dell’emigrazione. All’interno aveva più scomparti, grandi e piccoli, che potevano contenere oggetti più o meno lunghi e lar,ghi, vestiti e tante altre cose bene ordinate. Era fatta di cuoio e si vedeva che l’artefice aveva mestiere. Ci fu qualche minuto di silenzio. Carbotti si aspettava delle domande; io non avevo il coraggio di farle: capivo che quella valigia aveva un pregio e tanti fastti da raccontare.
Alla fine fu l’industriale a prendere l’iniziativa e tra un pensiero e l’altro disse: “Questa valigia per me è preziosa perché la realizzai oltre cinquant’anni fa. La feci per un amico, vent’anni più di me (io ne avevo 18), in partenza per il Sud-America. Io gli volevo bene e alla notizia che lasciava il nostro paese per una terra così remota, pensai di fargli un regalo, un atto di amicizia”. Domenico allora era impegnato con i finimenti di una cavallo e dovette attendere un po’ di giorni prima di mettere mano a quel parallelepipedo-armadio solido, ingegnoso, con custodia in tela.
Il cronista non si accontenta mai delle risposte, vuole saperne di più, esplora, scava, indaga, stimola, rompe… E domandò come mai quel manufatto così prezioso ce l’avesse lui e non il destinatario. E lì Domenico Carbotti, persona squisita, discreta, generosa aprì il libro e cominciò a raccontare, con molte pause, una storia che sapeva di favola commovente.
L’amico a cui aveva regalato la valigia, Ninuccio, arrivato in Venezuela si era messo a fare il rappresentante e dopo tanto cammino da una strada all’altra, da un cliente all’altro, arrivò al momento della pensione. E mise la valigia sull’armadio. Si ammalò e non si alzava più dal letto. Un giorno disse alla moglie. “Quando io me ne sarò andato dovrai esaudire questa mia richiesta: fare in modo di far tornare la valigia a quell’amico di Martina Franca, Domenico Carbotti. E’ lui che la fece apposta per me quando stavo per lasciare la mia terra per venire fin qui. Un pensiero grande, una testimonianza di affetto per un giovane che lasciava la sua casa per andare a lavorare nell’altra parte del mondo”.
Passavano gli anni e Carbotti non ritagliava più più da solo in casa di sua madre pelli per farne cinture e cartelle per la scuola; aveva costruito il suo laboratorio, impiegando una decina di lavoranti, gente operosa come sa essere anche quella del Sud e di Martina Franca in particolare, non pensava più a quella valigia fatta di più scomparti.
Una mattina un uomo bussò alla porta dell’azienda, al Foro Boario, dove ogni mercoledì si svolge il mercato, e chiese di parlare con il titolare. Lo fecero entrare, lo accompagnarono nell’ufficio di Domenico, indaffarato fra corrispondenze e fatture, e il visitatore depose davanti alla scrivania la valigia. Domenico la riconobbe e rimase perplesso: “Doveva trovarsi in Venezuela e invece era di fronte a me. Perchè?”. Non disse nulla, osservò quell’uomo, che a sua volta aveva gli occhi puntati su di lui, senza dire una parola, e aspettava che gli desse una spiegazione. Ma quello sembrava impietrito, immobile come il sergente di fronte al suo superiore. “E allora?”, domandò l’imprenditore. “Ninuccio è morto e prima di andarsene ha pregato sua moglie di restituire la valigia a chi l’aveva confezionata proprio per lui, perché durante i suoi viaggi in terra straniera si ricordasse del suo paese”. Nient’altro. Fece uno scatto, si voltò salutando e si diresse verso la porta. Domenico lo raggiunse per chiedergli notizie, ma l’altro gli sorrise, gli lanciò uno sguardo intenso, quasi commosso più di Carbotti e riprese i suoi passi.
Carbotti pensò all’amico perduto, si sedette assalito da congetture e ricordi, mentre osservava il regalo che era tornato indietro. “Mi comparve la figura di Ninuccio, il giovane che era, la sua sagoma, la sua delicatezza… insomma, mi si spalancarono pagine che credevo dimenticate, il mio lavoro imparato dagli otto ai dodici anni; le esposizioni a sedici anni delle mie borse (ero l’unico allora a farle, sino a Napoli); la partecipazione alla rassegna dell’artigianato a Taranto; l’impegno profuso nel mestiere di pellaio, che avevo insegnato a tanti concittadini e forestieri”. Tutti questi pensieri dilagarono per evitare di far scorrere le lacrime. “E tornava alla mente quell’uomo seduto di fronte a me, basso, panciuto, capelli argentei, naso a becco d’aquila, occhi di antracite, cravatta cremisi su completo grigio, modi bruschi, voce un po’ rauca”. Una sosta, un silenzio interrotto dai rumori della strada. Quella valigia aveva sempre ricordato a Ninuccio – in verità Giovanni – la sua città di origine e il desiderio di qualche rimpatriata, mai affrontata.
I martinesi tornano sempre al nido, come gli uccelli, mi disse una sera Peppino Montanaro, uomo di tante letture e riflessioni. Giovanni non tornò, forse per le ore di volo che occorrevano. Il mestiere che aveva esercitato nel nuovo mondo rimase un mistero. Domenico Carbotti non lo aveva chiesto al messaggero, non ne aveva avuto il tempo. La valigia conteneva il segreto e la diceva lunga sulla cura con cui era stata tenuta e usata, nonostante i segni evidenti di vecchiezza.
Sembra una bella fiaba, di quelle che i nonni raccontano ai nipoti a Natale ed invece è una storia vera snocciolata da una persona che non viveva certo nel mondo dei sogni. Peppino Cito, uomo pragmatico, non perdette una sola parola. E Domenico Carbotti chiuse la valigia con tutti i suoi segreti e la ripose sulla stessa mensola. Le rivolse un’occhiata e tornò da noi, che ci preparavamo a salutarlo. Non l’ho più rivisto, ma ho sempre avuto di lui un ottimo ricordo. E con lui ho sempre ricordato Ninì Ponte, Peppino Montanaro, Cenzino Ancona, l’avvocato Giovanni Chisena, “Necole a piche”, Pierino Pavone, che conosceva a memoria i libri di papa Galeazzo, il giocatore che indovinava le carte dell’avversario, Peppino, che faceva trulli di terracotta e quadri, casette di legno e tante altre cose. Cara Martina, cari abitanti della Valle d’Itria.