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Trentacinque anni fa, Italia campione del mondo di calcio Memorie di pugliese post-adolescente, quella finale Italia-Germania dell'11 luglio 1982 ascoltata alla radio nel deserto libico

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Avere un padre giramondo e che faceva l’emigrante di lusso, trentacinque anni fa, era veramente strano. Tecnico radar, che ogni tanto era in qualche parte d’Europa, o in America. Quella volta, Africa. Libia. E non Tripoli: deserto libico, Sebha, città natale di Gheddafi, per la cui base militare l’azienda produttrice di aeroplani aveva piazzato aerei e tecnologia. Italia e Libia, in ottimi rapporti, all’epoca. Molti italiani, come molti di molte altre nazionalità, lavoravano dall’altra parte del Mediterraneo. Non la vergogna degli ultimi anni, la Libia.

Capitava così che, con il papà emigrante di lusso, il figlio andasse a fare le vacanze lì, una volta terminata la scuola. Ma quell’estate era un problema: i mondiali di calcio. Come fare a capire, in Libia, l’andamento del campionato. Chissà se facessero vedere le partite alla tv libica. Fino al Brasile superfavorito che aveva vinto 4-0 nel turno eliminatorio, ogni minuto di ogni gara divorato alla televisione, in Italia. Poi, un salto nel buio. L’arrivo alle dieci di sera con 35 gradi, uscendo dall’aereo con un caldo che sembrava sempre il caldo dei motori ma in realtà era proprio quell’aria torrida, fu subito seguito dalla necessità di sapere dei mondiali. E fu subito sbattere la faccia contro la realtà: niente partite, qualche Gazzetta dello Sport di quando in quando.

Pochi giorni dopo, una inaspettata botta di fortuna: la tv libica trasmette, ripetendo da chissà quale emittente, le partite dal secondo turno in poi. Commento in lingua spagnola in sottofondo ma, purtroppo, commento del libico a sovrastare con la sua voce, quella del cronista “titolare”. Fatto sta che, nel pomeriggio caldissimo del deserto libico, tutti, adulti e ragazzi, lavoratori e loro familiari, mariti e mogli, e anziani, tutti a vedere Italia-Argentina, nel villaggio italiano. Impariamo a fraternizzare con “Orialli” che in realtà era il cognome Oriali distorto, impariamo ad arrabbiarci con Paolo Rossi che non ne prende una. Però, un paio di gol, all’Argentina di Maradona vengono fatti e l’Italia si appresta alla sfida con il Brasile. Quella risoltasi con un 3-2 storico, vissuto da chi era in Libia, sempre con quel commento in arabo, il commento alle prodezze di Paolo Rossi e di Zoff, di Antognoni e Scirea, Gentile, Tardelli eccetera. Battuto il Brasile, semifinale con la Polonia, ancora con quella tv libica a dare conto della doppietta di Paolo Rossi e dell’ingresso in finale: l’11 luglio 1982 sarà Italia-Germania.

E la televisione libica non trasmette la finale.

Come attrezzarsi per tempo: quattro giorni a scervellarsi, tutti, lì nel villaggio italiano a Sebha, in giornate torride a più di cinquanta gradi e serate assolutamente godibili. Ed entra in gioco la sempre sottovalutata ma sempre necessaria, fondamentale, insostituibile radio.

Andavano di moda quei mostruosi apparecchi stereo giapponesi, gli integrati radio registratore musicassette. Radio in fm, onde medie ma anche onde lunghe e onde corte. Ecco, le onde corte salvano tutto.

Sera dell’11 luglio 1982. In Italia, tutti a pendere dalle labbra di Nando Martellini e delle immagini provenienti dallo stadio “Santiago Bernabeu” di Madrid. Lì, in Libia, e chissà dove altro nel mondo, ma nello specifico lì a tremila chilometri da una qualsiasi piazza italiana, quel gruppo di italiani fra cui il post-adolescente pugliese con tutti i suoi amici di vacanza e con tutte le famiglie della comunità italiana, ecco tutti insieme attorno a quell’apparecchio radio. Sistemato in un certo modo, per captare meglio il problematico segnale, in uno spiazzo di quel villaggio. Radiocronaca di Enrico Ameri, parte la finale. Primo tempo equilibrato, poi quel radiocronista che parla a 150 all’ora con il suo flusso incontenibile e straordinario di parole, quel radiocronista si diceva, annuncia “calcio di rigore”. Lo tira Cabrini e lo sbaglia, facendo passare tutti da uno speranzoso entusiasmo a una preoccupata delusione. Fine del primo tempo, 0-0. Un quarto d’ora per riassestarsi tutti, quindi il via alla ripresa e via a quel quadretto di famiglia attorno alla radio. Una famiglia di decine e decine e decine di italiani, lontani dal loro paese. Arrivano i gol: il solito Paolo Rossi, poi Tardelli, poi Altobelli, poi Breitner. Poi il fischio finale, nel racconto di Enrico Ameri la straordinaria descrizione del gruppo che aveva riportato in Italia la coppa del mondo dopo 44 anni. Una cosa fantastica. In Libia, il racconto celebratissimo di Martellini con le immagini di Tardelli e del suo urlo, con le immagini del presidente Pertini che dice “non ci prendono più” e con l’urlo campioni del mondo campioni del mondo campioni del mondo, ecco tutto ciò, lì a migliaia di chilometri dall’Italia, non visto né ascoltato.

Ma si visse un senso della comunità, e va detto, della comunità italiana, come mai, mai, ricapitò e chissà se sia destinato a ricapitare mai. E che nessuno, probabilmente, in Italia visse in maniera talmente intensa. Un’esperienza fantastica, che trentacinque anni dopo, quel post-adolescente pugliese, ricorda come fosse oggi. Per quel successo straordinario e per lo straordinario, irripetibile contesto in cui accadde. Che esperienza incredibile. E al ritorno in Italia, qualche giorno dopo, bastava dire Paolo Rossi, alla dogana degli aeroporti libici, per passare con papà, mamma e sorellina di quattro anni teppista, e vedersi spalancare, dall’addetto libico, un sorriso chilometrico. Roba di un altro mondo.

Agostino Quero




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